Concludo qui il trittico che ho voluto dedicare ai
cimiteri e alle
epigrafi funebri non certo per parlare tristemente di morte, ma piuttosto per far risorgere, come ho cercato di fare nel precedente articolo, l'immagine viva e animata di una realtà storico-antropologica che ci appartiene: l'intera società casalasca dell'Ottocento nei suoi molteplici aspetti, persone, fatti, sentimenti, rapporti familiari e sociali, atteggiamenti psicologici e culturali.
La morte tuttavia non aveva sempre quei tratti semplici e privati che abbiamo conosciuto, bensì assumeva talvolta, quando riguardava i cittadini più illustri per fama e meriti insigni, la solennità di un lutto pubblico, che coinvolgeva nel dolore, nel compianto, nel tributo d'onore e di riconoscenza l'intera comunità.
Le esequie più grandiose dell'intero secolo vennero celebrate in Casalmaggiore in memoria di Paolo Fadigati, morto a 83 anni il 19 gennaio 1844 “per malavventurata caduta”, come attestano due opuscoli stampati nell'occasione dalla tipografia dei Fratelli Bizzarri. Il primo si intitola “In argomento del pubblico duolo per la morte dell'egregio Podestà di Casalmaggiore D. Paolo Fadigati. Iscrizioni e versi” e riporta le iscrizioni collocate per il funerale sulla facciata del municipio, alla porta della chiesa di Santo Stefano, all'altare maggiore accanto al feretro e sulle pilastrate del tempio per ricordare gli alti uffici da lui ricoperti, le virtù, le grandi benemerenze verso la patria. Nel trigesimo un'altra cerimonia funebre commemorò il Fadigati nella chiesa di Vicomoscano con altre onorifiche iscrizioni e un'ode anonima di versi veramente pietosi (nel duplice senso). Emerge un ritratto certo encomiastico ed agiografico del personaggio, che tuttavia ebbe un sicuro rilievo storico non solo nella vita cittadina, in quanto, come sintetizzano le varie epigrafi, il Fadigati, “nobile casalense giureconsulto”, nato l'11 ottobre 1760, laureato a Pavia, “nel 1796 da grave periglio la patria salvò” (si riferisce al perdono ottenuto da Murat, legato a lui dalla comune fede massonica, e da Napoleone, che minacciava gravissime rappresaglie contro Casalmaggiore insorta contro i Francesi), nel 1802 fu delegato al congresso di Lione come membro del Collegio elettorale dei possidenti; raggiunse il più alto grado politico ricoprendo dal 1802 al 1805 l'importante carica di prefetto del dipartimento del Crostolo (la provincia di Reggio Emilia), anche se, pare, con scarso impegno e intraprendenza (tanto che il pungente sarcasmo emiliano lo soprannominò “fatiga-ti”), per passare in seguito ad altri incarichi minori. Dopo la caduta di Napoleone, il Comune lo inviò a Vienna per esprimere all'Austria la fedeltà e la soggezione di Casalmaggiore ed ottenere dall'imperatore Francesco I la conferma del titolo di città regia, come avvenne nel 1816. Nel 1825 ebbe l'onore di ospitare nella sua casa l'imperatore e nel 1827 ricevette la nobiltà austriaca, anche per i discendenti. Dal 1831 alla morte esercitò in patria l'ufficio di podestà (che veniva allora nominato dall'alto su una terna di candidati presentati dal Comune) con generale plauso. L'iscrizione posta dalla famiglia per esprimere il suo cordoglio si chiudeva con questa quartina di canori endecasillabi: “Dolce parente o nostro ben perduto, / ahi non ci è dato favellar più teco / ma il nostro labbro e della patria l'eco / di te, de' pregi tuoi nunqua fia muto”.
Un altro cittadino che la Comunità aveva voluto onorare con funerali di eccezionale solennità pubblica era stato qualche decennio prima Ferdinando Zanibelli, padre di quel Pietro Zanibelli che abbiamo già conosciuto nel precedente articolo come carbonaro e cospiratore, di alti meriti civici e patriottici. Ferdinando già durante il governo austriaco era emerso in Casalmaggiore come l'imprenditore più innovativo e intraprendente, dando vita a quella fabbrica di terraglie finissime che poi, con alterne fortune, sarebbe durata fino al '900. L'intendente Berti, che reggeva la Provincia con a capo Casalmaggiore, un vasto territorio esteso fino a Piadena, Bozzolo, Viadana, di quasi 100.000 abitanti, parla nel 1786 con grande stima “d'un certo mercante Ferdinando Zanibelli uomo d'onestà non solo ma di sommissime capacità e cognizioni mercantili ed abile in ogni direzione”. In età napoleonica fu nominato podestà nel 1807, poi rappresentante dei commercianti nel dipartimento dell'Alto Po (provincia di Cremona) e in altri uffici minori. Quando morì il 28 marzo 1812, nell'iscrizione celebrativa composta per le sue esequie “il Municipio, le Autorità, i Cittadini” lo piansero come “della Patria e Felicità Pubblica magnanimo campione”.
Di altri due illustri cittadini abbiamo le lapidi funerarie poste a perenne memoria dalla famiglia.
Il 25 febbraio 1823 il fratello Luigi e i nipoti Romano e Giovanni chiedono, come di consueto, al Comune il permesso di collocare un'epigrafe sul sepolcro del loro congiunto, il nostro grande storico, glottologo ed educatore abate Giovanni Romani, deceduto a 65 anni il 14 luglio 1822. Scritta in un sobrio e severo latino essa è dedicata “Cineribus et memoriae Johannis de Romanis presbyteri kasalensis, viri frugi integerrimi, de iuventutis institutione optime meriti, domi forisque clarissimi” (Alle ceneri e alla memoria di G. R. sacerdote casalese, uomo frugale, integerrimo, che acquistò grandissimi meriti nell'istruzione dei giovani, di grande fama in patria e fuori).
Così la nipote Lucia, figlia del fratello Luigi, presenta la prescritta domanda con il testo dell'epigrafe per lo zio professore in pittura Giuseppe Diotti “da morte rapito all'Italia” a 66 anni, il 30 gennaio 1846. Essa è dettata in lingua nobile ed elevata e val la pena trascriverla quasi per intero perchè ben sintetizza la vita e il valore dell'artista: “Al Concittadino Diotti Giuseppe di Gaetano per corretto disegno elette forme a pochi secondo, da apposite medaglie insignito in ardue gare di merito, d'illustri accademie vanto, nella Carrarese di Bergamo maestro a Coghetti, Carnevali, Scuri, Trecour (sic, invece di Trecourt), in tanta gloria modesto, gentile, religioso […] Casalesi riconoscenti implorate con assidue preci che l'alma sua in Cielo si acqueti nella beata visione di quel bello cui anelava di ritrarre in terra”.
In entrambi gli epitaffi mi pare significativo che manchi ogni nota di dolore privato, quasi che gli stessi familiari sentano che i loro congiunti appartengono ormai alla storia e che con la morte sono ascesi alla vita più alta degli spiriti che con la loro opera hanno acquistato fama imperitura.
I due grandi casalesi vennero inumati in luogo distinto, indicato dagli stessi familiari, nel cimitero del Gesù, aperto, come si ricorderà, nel 1788 su impulso del governo austriaco. Ma non doveva essere questa l'ultima dimora delle loro ceneri.
Negli anni '70 dell'Ottocento venne infatti avviata la costruzione del nuovo monumentale cimitero situato assai più distante dall'abitato, in posizione molto più conveniente, che, ampliato e sempre meta di un memore e devoto culto reso ai defunti, è tuttora in funzione.
Conviene qui aprire una digressione per accennare appunto al percorso che dal punto di vista amministrativo portò alla realizzazione della nostra nuova “città dei morti”, tralasciando invece ogni riferimento agli aspetti architettonici, per i quali rinvio a numerosi scritti dell'arch. Luciano Roncai e in particolare alla sua sintesi contenuta nel volume L'età progettuale (a cura di V. Rosa), Casalmaggiore 2006, pp.162-63.
Già da tempo e in varie occasioni si erano sottolineati i gravi difetti dell'antico cimitero, posto in un'area troppo ristretta, per cui veniva man mano a mancare lo spazio per le nuove sepolture. Ma soprattutto il progresso scientifico rendeva la cittadinanza sempre più sensibile ai gravissimi pericoli esistenti sul piano igienico e sanitario non solo per le esalazioni mefitiche che investivano i vicini borghi di Cantarana e di San Sebastiano, ma in particolare per l'eccessiva prossimità al Po: il terreno era sabbioso e giaceva in una bassura, per cui le acque del fiume anche in tempo di medio livello filtravano e quando si scavavano le fosse per l'inumazione affioravano e bisognava deporre le bare in una terra intrisa d'acqua, senza dire delle rovinose inondazioni durante le frequenti piene. Inoltre quando le acque defluivano, c'era il forte rischio che trascinassero via materia in putrefazione che andava a contaminare le acque potabili dei pozzi del centro abitato, tanto che la Commissione di sanità, con forse eccessivo allarmismo, aveva attribuito a questo fatto il frequente verificarsi di parti di bambini morti.
A questa situazione ormai insostenibile decise di porre rimedio il consiglio comunale del 28 febbraio 1853, in cui si identificò anche il sito più idoneo alla costruzione di un nuovo cimitero: un fondo di proprietà della mensa vescovile a fianco della strada che portava al santuario della Fontana. Tutto però rimase in sospeso per mancanza di risorse, anche se vennero avviate complesse trattative con la curia vescovile per l'acquisto del terreno destinato al cimitero, il cui costo nel 1866 venne quantificato in L. 8500, e del retrostante terreno da adibire alle esercitazioni di tiro al bersaglio della Guardia nazionale e dei cittadini. Interveniva intanto con le leggi 7 luglio 1866 e 15 agosto 1867 la liquidazione dell'asse ecclesiastico, cioè il trasferimento a determinate condizioni di parte dei beni ecclesiastici al demanio dello Stato, e tutti i fondi della mensa di Cremona vennero affittati ad un Emilio Biazzi, con la prospettiva che poi venissero messi all'asta e venduti a terzi. Il Comune, temendo che ciò portasse ad un aumento del prezzo e a lunghe pratiche con privati per l'acquisto, deliberò il 15 marzo 1870 di procedere all'esproprio per causa di pubblica utilità della pezza di terreno occorrente per le due opere, versando la somma complessiva di L. 5781, ed emise il relativo avviso di esecuzione il 15 dicembre 1871.
A questo punto la pratica per il cimitero entrò nella fase conclusiva: il 24 maggio 1873 venne bandito un pubblico concorso e i nove progetti pervenuti vennero inviati per il giudizio alla sezione d'architettura dell'Accademia delle Arti del disegno di Firenze. Questa emise il suo parere il 24 febbraio 1874, dichiarando la sua preferenza per uno dei due progetti presentati dall'arch. Visioli, originario di Casalmaggiore ma con studio a Cremona, che parve il più conveniente per un centro di 4911 abitanti sotto il profilo dello stile, della disposizione e dell'opportunità pratica, viste le ristrettezze finanziarie del Comune, in quanto ben configurato nella sua semplicità e suscettibile di un graduale completamento. Il progetto finale, definito “di stile bramantesco” o “rinascimentale”, con la descrizione particolareggiata della struttura cimiteriale, del tutto corrispondente a quella oggi esistente, venne inoltrato dal Visioli il 4 aprile 1876 e approvato dal Consiglio il 13 maggio 1876: su suggerimento dello stesso Visioli, si decise di procedere inizialmente alla costruzione delle strutture essenziali sul lato nord d'ingresso, dei muri di cinta, del tempio centrale e delle due cappelle laterali d'angolo sul lato opposto, rinviando le ulteriori opere e l'ornamentazione a quando la vendita ai privati delle tombe avrebbe fornito al Comune i necessari mezzi economici. L'opera, assegnata per appalto al sig. Antonio Pezzini con contratto del 13 giugno 1877, venne portata a termine e approvata per collaudo nella primavera del 1879 con una spesa complessiva di L. 35.000 circa (per approssimazione negli anni '70 1 lira valeva 3,50-4 euro). Tutto il lavoro e l'impegno del Visioli vennero compensati in misura più che modesta: egli aveva richiesto per le sue competenze e le spese sostenute L. 3230, ma il sindaco Poltronieri lo convinse che potevano bastare L. 1600 e l'architetto, forse per amor di patria, accettò. Un accurato Regolamento di polizia mortuaria per definire sotto ogni aspetto il funzionamento del nuovo cimitero venne deliberato il 10 dicembre 1878.
La vicenda però era tutt'altro che conclusa, perchè l'assessore ing. Mosca il 7 giugno 1881 presentò al Consiglio una sconsolata relazione in cui denunciò che erano trascorsi quattro anni dall'ultimazione della parte rustica del cimitero e due da quando era stato aperto al pubblico, ma molto rimaneva da fare per completare il progetto del Visioli, tanto che non si poteva soddisfare la richiesta di molte famiglie che premevano per acquistare un sepolcro. Si delibera quindi di eseguire lavori per L. 18.498, di cui L. 8634 a totale carico del Comune per ultimare in rustico il famedio, che si trova ancora a metà, e il resto per la costruzione di tombe, la cui spesa verrà poi recuperata con la cessione ai privati. Vengono anche definiti la classificazione , il numero e il prezzo di vendita delle varie tipologie di sepolcri, a cominciare dalle quattro cappelle angolari che costano L. 4000 ciascuna. Le difficoltà non ebbero però termine e una nuova deliberazione del Consiglio comunale del 21 giugno 1887 ci informa che l'esecuzione dei lavori decisi nel 1881 si è interrotta nel 1884, perchè sono sopravvenute spese più urgenti: le rate del mutuo acceso presso la Cassa depositi e prestiti per L. 203.000 per la costruzione di 11 edifici per le scuole elementari delle frazioni e la spesa straordinaria di L. 20.000 sostenuta per l'epidemia di colera del 1884. Si delibera quindi di portare a termine i lavori progettati, anche perchè vi sono famiglie che hanno stipulato il contratto e pagato l'intero importo senza che la loro tomba sia stata completata.
Non seguiremo più oltre la vicenda, che si protrasse per anni prima che l'opera venisse definitivamente perfezionata, ma, anche al di là del caso specifico, spero che sia emerso chiaro un quadro della complessità e difficoltà dei problemi che i Comuni italiani erano chiamati a risolvere all'indomani dell'Unità.
Possiamo a questo punto riprendere il nostro discorso principale, perchè nel 1886 appare ormai terminato, almeno nelle sue strutture essenziali, il famedio, l'edificio in forma di tempio ottagono con cupola, che fin dall'inizio era stato previsto come elemento fondamentale dell'impianto cimiteriale, al centro del lato di fronte all'ingresso, “come dominante e custode dei morti”, posto su un alto basamento per ragioni tecniche (staccarlo dall'umidità del terreno e creare nello spazio sottostante un ossario), ma soprattutto per conferirgli maestà e decoro, in quanto destinato a Pantheon per la sepoltura degli uomini illustri e benemeriti della patria.
Nell'Italia post-unitaria il culto dei sepolcri era infatti uno dei principali elementi di quella “pedagogia” civile e patriottica che le classi dirigenti tanto liberali che democratiche e socialiste ritenevano necessaria per costruire e rafforzare l'identità nazionale, e faceva parte di un'articolata strategia, mirante anche a una “occupazione del territorio” con monumenti, lapidi, busti sistemati nelle piazze e nei punti nevralgici di tutti i centri abitati, anche minimi, oltre che con un radicale rinnovamento di tutta la odonomastica, come mostra esemplarmente anche Casalmaggiore, le cui vie in gran parte ricevettero allora, e conservano, il nome di personaggi risorgimentali.
Era stato in particolare il Foscolo col suo carme Dei sepolcri a esaltare il valore etico, civile, politico e religioso delle tombe in generale, ma soprattutto di quelle di Santa Croce, dove erano raccolte “l'itale glorie, uniche forse / da che le mal vietate Alpi e l'alterna / onnipotenza delle umane sorti / armi e sostanze t'invadeano ed are / e patria e, tranne la memoria, tutto. / Che ove speme di gloria agli animosi / intelletti rifulga ed all'Italia / quindi trarrem gli auspici”. Versi famosi, che, anche grazie alla scuola, si impressero nella mente e nel cuore di tanti Italiani e si incisero nella loro coscienza con la forza di una fede.
Nacque così una “religione della patria” laica, non confessionale, e anzi spesso in contrasto con quella tradizionale, ma che ne ripeteva le cerimonie, le simbologie ed anche il lessico, in parte per coinvolgere più intensamente il popolo abituato alla ritualità ecclesiastica, ma, a livello più profondo, perchè per tutti, credenti e non credenti, i valori supremi appartengono alla sfera del “sacro” e quindi, secondo l'etimologia latina, ad una dimensione “separata” dall'umano e “consacrata agli dei”. Perciò ai defunti che avevano illustrato la patria e si erano sacrificati per essa spettava un culto religioso ed essi divenivano “martiri” come quelli cristiani testimoni della fede, mentre la loro tomba prendeva la sacralità di un “altare” (e del resto anche oggi il Vittoriano, sepolcro di Vittorio Emanuele II e del Milite Ignoto, è noto a tutti noi come “Altare della patria”). Sul modello sotteso di Santa Croce sorse in tante città il desiderio di riservare ai cittadini più degni una sepoltura privilegiata in una struttura a loro dedicata, che si volle chiamare “tempio della Fama” o, con neologismo derivato dal latino, famedio (Famae aedes).
Anche la municipalità casalasca decise di creare nel nuovo cimitero il suo famedio e l'assessore avv. Adolfo Gorni con un discorso di nobile eloquenza nella seduta del 13 maggio 1886 propose al Consiglio di collocarvi le spoglie di Giovanni Romani e di Giuseppe Diotti “figli benemeriti di questa nostra Casalmaggiore perchè ne illustrarono il nome, il primo con la penna di letterato e storico distinto, il secondo con il pennello rivestitore di concetti sublimi”, le cui ossa giacevano quasi dimenticate nel vecchio cimitero. Vari consiglieri intervengono nella discussione e l'ing. Mosca propone che l'onore del sepolcro nel famedio sia concesso anche al notaio dott. Luigi Boina, mentre il consigliere Dellaparte suggerisce lo stesso riconoscimento per Ippolito Longari Ponzone. Dopo un'ulteriore pausa, certo per dare l'ultima finitura al famedio, il 31 ottobre 1887 si procede alla presenza dell'avv. Gorni e dei parenti dei defunti all'esumazione delle ossa del Romani, del Diotti e del Boina, sepolti nel cimitero del Gesù ormai soppresso, e al loro trasporto nel nuovo. Intanto lo scultore Silvio Monti di Cremona fu incaricato di scolpire in marmo i busti del Diotti, di Boina e di Longari Ponzone, mentre quello del Romani già esisteva ed era di proprietà comunale, per una vicenda che merita un breve cenno. Quando nel 1870 l'Istituto Tecnico-Liceale casalasco (poi Liceo classico ed ora ritornato alle origini per i corsi e ricorsi della storia) venne intitolato al Romani, lo scultore casalasco Pietro Civeri, residente a Roma, forse su suggerimento del cugino avv. Poltronieri, a lungo consigliere e sindaco, subito prese l'iniziativa di eseguire un busto del grande storico e lo offrì al Comune per la somma di favore di L. 1000; il Consiglio accettò l'offerta, anche se, trovandola troppo onerosa, ridusse il compenso a L. 800.
Per i suoi busti e la loro messa in opera su mensole, entro medaglioni, lo scultore Monti ricevette invece nel 1889 un compenso di L. 2300 e finalmente il 2 giugno 1889 potè svolgersi la solenne cerimonia per l'inaugurazione del famedio, dove trovarono onorevole sistemazione le spoglie mortali e i busti dei nostri quattro illustri concittadini (anche se per inciso va ricordato che la famiglia preferì che il corpo del Longari Ponzone rimanesse nella tomba dove già era deposto a Rivarolo). Per l'occasione fu stampato dalla tipografia Aroldi un opuscolo introdotto dal discorso del facente funzione di sindaco Lorenzo Bussani, che esorta le giovani generazioni a ritrarre dai grandi “utili esempi per loro stessi e per la società, in tempi ne' quali lo scetticismo e gl'interessi materiali prevalgono sulle aspirazioni a nobili ideali e tendono a distruggere il sentimento della riconoscenza verso chi ha onorato il proprio paese”. Seguono le orazioni commemorative dedicate ai quattro insigni personaggi, svolte con partecipazione, ma anche grande sobrietà di toni, e che forniscono, almeno sul Longari Ponzone e sul Boina, preziose notizie biografiche non altrove reperibili. Il dott. Giovanni Romani, consigliere comunale, recita un alto elogio del suo omonimo prozio, ricordato più come filologo e linguista che come storico, ed anche di Giuseppe Diotti, riguardo al quale però si limita a descrivere il famoso quadro che ha per soggetto la tragedia del conte Ugolino. Il dott. Giuseppe Biagi ripercorre lucidamente la biografia “piena di pensieri e di opere egregie” del cav. Ippolito Longari Ponzone (1815-1872), che “prestò al paese utili e disinteressati servigi” come patriota, podestà, consigliere provinciale, deputato nazionale. Infine il cav. Pietro Vallari tesse l'elogio del cav. dott. Luigi Boina (1814-1876), volontario nel '48, a lungo stimato notaio a Viadana e a Casalmaggiore, chiamato a vari incarichi pubblici, onorato in morte con pubblico funerale decretato dal Comune.
Rispetto all'inaugurazione del 1889 nulla oggi è mutato nel famedio, a parte l'inserimento, in circostanze che ignoro completamente, di un sepolcro in candido marmo di Carrara che reca la semplice scritta “Famiglia Vaghi”, bello in sé, ma che stona con il colore smorzato dell'ambiente, come pure il Crocifisso “moderno” e dai colori accesi posto sull'altare. In seguito nessun casalasco ebbe gli onori del famedio, anche se nel 1905 il Consiglio, su proposta del sindaco dott. Passeri, deliberò di collocarvi un ricordo del valente architetto Fermo Zuccari (1807-1869), che aveva fornito il progetto del duomo di Santo Stefano. La figlia Anna Radius Zuccari (scrittrice famosa col nome di Neera) venne nell'occasione informata ed interpellata sulle principali opere del padre, e rispose con una breve lettera autografa tuttora conservata in Archivio. Per ragioni a me ignote l'idea allora non giunse in porto, ma, per diretto interessamento dell'arch. Roncai, si realizzò nel 1988, quando, come informa una semplice lapide, “i resti (di Fermo Zuccari) provenienti dal Cimitero Monumentale di Milano qui nella sua terra natale furono raccolti per volontà del Comune di Casalmaggiore”.
Il visitatore che entri oggi nel famedio, accessibile solo grazie alla gentilezza del custode, ha la sensazione di entrare, piuttosto che nel tempio della fama, in un vasto ambiente vuoto, spoglio d'ogni elemento che dia il segno d'una memoria ancora viva e sempre rinnovata, capace d'ispirare sentimenti e pensieri elevati. Nulla indica il luogo dove furono poste le ceneri dei grandi lì sepolti, mentre ad un'altezza eccessiva, che dà un senso di distacco, anche psicologico, sono sospese quattro mensole circondate da medaglioni illeggibili per la distanza, su cui dovrebbero trovarsi i quattro busti dei cittadini cui il famedio fu dedicato. Ma con sorpresa si nota che essi sono ridotti a due, perchè quelli del Romani e del Diotti sono stati trasferiti nel nostro museo civico con decisione che avrebbe certo una sua logica se il loro valore fosse puramente estetico e non anche storico ed ideale e se un'opera d'arte, staccata dall'ambiente e dalle finalità per cui venne creata, non perdesse in larga misura il suo significato. Viene spontaneo rivolgere all'Amministrazione una domanda: non sarebbe giusto restituire i due busti alla loro collocazione naturale e originaria, destinando eventualmente al museo delle copie fedeli, e studiare i modi più opportuni per rendere più accessibile e valorizzare il luogo che custodisce le più gloriose memorie cittadine?