Vi sono date ed eventi che la storia “ufficiale” non registra, che sfuggono a celebrazioni ed anniversari, ma che segnano effettivi momenti di svolta e trasformano la vita reale degli uomini e della società, avviandola su percorsi nuovi e più avanzati.
Una di queste date è per la Lombardia il 24 ottobre 1767, giorno in cui a Milano il governo austriaco emanò un editto che vietava di seppellire i morti entro i confini dei centri abitati e prescriveva la sepoltura extra moenia. Già altri paesi europei avevano preso provvedimenti simili, ma in Italia fu questo il primo, presto seguito da altri Stati minori, in linea con una tendenza generale che a partire dalla metà del '700 si affermerà dovunque producendo straordinari mutamenti, perchè dopo secoli la città dei vivi veniva a separarsi completamente dalla città dei morti, i riti funebri assumevano nuove forme, la stessa concezione della morte si trasformava, la competenza sulla morte e sui defunti veniva trasferita in massima parte dalla Chiesa allo Stato, che si attribuiva il compito di riordinare e regolare con nuove leggi, secondo propri principi e criteri, tutta la materia cimiteriale.
I riti funebri e di sepoltura sono sempre stati in ogni tempo e presso ogni popolo uno degli aspetti fondamentali della loro civiltà e quindi si può capire quale profondo impatto abbia prodotto nella società del tempo un insieme di norme che venivano a trasformare o sopprimere tradizioni e credenze radicate nei secoli. Per cogliere dunque la portata di queste innovazioni, non si può non richiamare per cenni essenziali la situazione precedente e l'evoluzione che le pratiche funerarie avevano avuto in rapporto con il pensiero religioso.
Nelle civiltà antiche e nell'impero romano sappiamo che i defunti venivano sepolti fuori dalle città, in luoghi isolati ed anche i cristiani nei primi secoli li riposero nelle catacombe sotterranee e ben lontane dall'abitato, in loculi sovrapposti, riservando però ai martiri, ai vescovi, a personaggi di rilievo cappelle e sepolcri particolari, che divenivano luoghi di culto e di preghiera e dove si veneravano le loro reliquie. Dopochè il cristianesimo si affermò come religione ufficiale dell'impero, queste reliquie vennero trasferite nelle città e accanto ad esse sorsero le chiese, spesso dedicate al santo lì sepolto, al quale i fedeli si rivolgevano per invocarne l'aiuto, l'intercessione presso Dio, il perdono dei peccati, la salvezza dell'anima. Questa era oggetto di particolare preoccupazione per il cristiano, perchè da essa dipendeva il suo destino ultimo, la sua eterna beatitudine o dannazione e quindi si diffuse tra i cristiani il desiderio che il proprio corpo fosse sepolto “ad sanctos”, presso il santo protettore, nella stessa chiesa. Dapprima tale privilegio spettò solo al clero, ma poi gradualmente si estese alla nobiltà e poi a persone di rango e ricche abbastanza per poterlo acquistare con una congrua offerta versata “pro salute animae”. I cimiteri pertanto si trasferirono completamente dal territorio esterno a quello urbano e furono collocati negli edifici religiosi. Ovviamente questi non potevano accogliere tutti e si crearono situazioni ben differenziate, anche perchè la morte rende tutti gli uomini uguali e cancella le gerarchie terrene, ma le famiglie e la società tendono a conservarle e, come ha detto uno specialista come Vovelle, “non c'è nulla di più diseguale della morte”. Tutti ambivano a porre la loro tomba vicino all'altare maggiore o in una delle cappelle laterali, ma tali luoghi vennero riservati al clero, ai “grandi” e alle confraternite: venivano scavate sotto il pavimento delle cripte sepolcrali singole o collettive (per famiglie o confraternite), in cui venivano calate le bare, fino a riempirle e chiuse poi con una semplice lastra marmorea; esse poi erano periodicamente svuotate e i resti raccolti e deposti negli ossari all'esterno, sotto porticati addossati ai muri o nel terreno adiacente alle chiese. I cadaveri della gente comune, dopo la cerimonia funebre che comportava solo il pagamento al parroco d'un diritto “di stola nera”, avvolti in un sudario, venivano invece gettati indistintamente gli uni sugli altri in una delle fosse comuni situate attorno alla chiesa.
La salvezza dell'anima cristiana è affidata alla sua fede e alle buone azioni da lui compiute in vita, ma poiché l'umana fragilità non lascia nessuno esente dal peccato e nessuno può quindi essere sicuro del proprio destino, la Chiesa da una parte impostò per secoli la sua pastorale e la sua predicazione sul pensiero della morte, sul pericolo della condanna eterna, sulla paura delle pene infernali rappresentate nel modo più materialmente terrificante (si pensi a Dante e alla pittura medievale), dall'altra mise a disposizione del cristiano una serie di pratiche devote che gli consentissero di placare o almeno attenuare l'ossessiva minaccia della dannazione.
Il testamento, che per noi è un semplice atto di diritto privato con cui si dispone la propria eredità, fino al '700 ebbe un significato soprattutto religioso, perchè oltre a definire le sue ultime volontà sulla cerimonia funebre e la sepoltura, il testatore vi stabiliva minuziosamente i lasciti destinati “ad pias causas”, per la carità ai poveri e agli istituti di beneficenza e soprattutto alla Chiesa. Il testamento, secondo l'espressiva definizione di Le Goff, era considerato “il passaporto per il cielo”: il cristiano dovrebbe rinunciare ai beni terreni e astenersi dai mezzi, spesso illeciti, con cui si procura le ricchezze e perciò egli potrà goderne in vita senza temere per la salvezza solo destinandone una cospicua parte alla Chiesa al momento del trapasso. I più esposti al rischio erano naturalmente i più agiati ed era a questi in particolare che il clero rivolgeva le sue attenzioni, specie quando la morte si appressava, per convincerli a donare generosamente (spesso con l'effetto di suscitare aspre contese con i familiari, che vedevano in tal modo ridotta fortemente la loro eredità). Le rendite tratte dai lasciti in immobili, che andavano ad accrescere la proprietà ecclesiastica, come le donazioni in denaro erano in genere destinati alla celebrazione di uffici funebri e di messe di suffragio per liberare al più presto l'anima del defunto dalle pene del purgatorio. Il numero di tali messe era incredibilmente alto, spesso centinaia nel corso dell'anno, tanto che con questi legati venivano costituiti dei benefici sufficienti per mantenere preti “non curati”, cioè non addetti alla parrocchia, ma solo alla celebrazione di messe “pro defunctis”.
A queste credenze e pratiche funerarie era dovuto anche lo straordinario successo delle confraternite laicali, a cui si associavano gli abitanti d'un certo quartiere o parrocchia per compiere particolari atti di culto, ma che fungevano soprattutto da vere società di mutuo soccorso di fronte alla morte. Esse infatti avevano in primo luogo il compito di celebrare per il loro confratello defunto un funerale onorevole, con la partecipazione alle esequie di tutti i soci nelle loro pittoresche divise e di farlo seppellire nel sepolcro riservato alla confraternita, posto sempre all'interno della chiesa in luogo privilegiato. In più, e la cosa aveva particolare rilievo, messe e devozioni fatte celebrare dalla confraternita andavano a beneficio delle anime di tutti i confratelli defunti, assicurando loro un patrimonio sempre crescente di suffragi.
L'altro mezzo fornito dalla Chiesa ai fedeli per aiutare le anime nell'aldilà erano le indulgenze, che con certe modalità e versando congrue offerte, si potevano lucrare attingendo all'inesauribile tesoro di meriti di Cristo e dei santi accumulato dalla Chiesa, ottenendo per sé e per i propri defunti la remissione di giorni, anni, secoli, o perfino plenaria, dalle pene del purgatorio. La pratica divenne ben presto anche motivo di polemica e di scandalo (si pensi a Lutero e al diffuso gioco di parole con cui i riformati denunciavano che il purgatorio si era effettivamente trasformato in un pagatorio); e tuttavia, privata dell'aspetto “commerciale”, la pratica ha resistito fino ai nostri giorni.
Tutto questo sistema, che poneva al centro della religione e della vita dell'uomo il cupo senso del peccato e della morte, si traduceva in rituali di fastosa e spettacolare cerimonialità barocca, con pratiche devozionali rivolte ai santi e alle reliquie, esequie funebri, processioni notturne atte ad impressionare e a coinvolgere emotivamente i fedeli, a suscitare sentimenti irrazionali di orrore e timore, lontani dal sereno spirito evangelico e permeati piuttosto da una distorta mentalità magico-superstiziosa (un pericolo in verità presente ancora oggi nel pullulare di sette e gruppi che tendono a chiudersi in se stessi per vivere la loro esperienza di “verità” privilegiata, di illuminazione interiore, cercando nella religione rassicurazioni psicologiche, rifugio contro i mali e le nequizie del mondo moderno, evasioni misticheggianti, visioni, miracoli...).
Da parte cattolica la critica alla pietà controriformistica e barocca venne nel '700 dal Muratori e dal clero giansenista, che cercarono di promuovere una “regolata devozione” e una “pietà illuminata”, fondata su una religiosità più interiore e vissuta nell'amore del prossimo, ma fu tutta la cultura illuminista “moderata” (e in Italia lo fu quasi interamente) che pose il problema di purificare la religione dai suoi aspetti più macabri e irrazionali e di farne una potente forza di elevazione morale dell'individuo e di miglioramento della società. Ho letto in questi giorni una riflessione del cardinale Martini che ben si collega al nostro tema e quanto mai acuta nel cogliere analogie e convergenze tra culture che ultracattolici da una parte e ultralaicisti dall'altra tendono costantemente a contrapporre: “L'illuminismo e il cristianesimo, pur essendo storicamente in contrasto, con il tempo hanno prodotto una sintesi preziosa che fa perno sulla dignità della persona umana e sul carattere inalienabile dei suoi diritti fondamentali”. Si potrebbe in certo modo dire che l'Illuminismo veniva a riaffermare quei principi di carità, libertà, tolleranza che in Occidente si erano diffusi soprattutto grazie al Vangelo, ma che la Chiesa istituzionale tendeva a dimenticare.
Ma fu in definitiva il potere pubblico a intervenire per metter fine a una concezione ormai anacronistica della morte, a moderare i rituali funebri, a regolare i lasciti a enti religiosi, che rivolgevano imponenti ricchezze ad usi improduttivi, a disporre per legge nuove forme di sepoltura e di sistemazione dei cimiteri. Ciò rientra in un più generale movimento di riforma promosso dai sovrani illuminati, che intendono dirigere e disciplinare ogni aspetto della vita sociale in vista del bene comune, e considerano loro dovere recuperare la piena sovranità dello Stato rispetto alla Chiesa, anche riguardo ad aspetti fondamentali della vita privata dei cittadini affidati da secoli al controllo dell'autorità ecclesiastica: lo stato civile, il matrimonio, l'istruzione, la sanità e l'assistenza, la morte. Una potente spinta alla riforma dei cimiteri giunge anche dalle nuove teorie mediche, che mettono in luce il grave pericolo per la salute pubblica costituito dalle tombe poste sotto le chiese e attorno ad esse, poiché da esse provengono pestilenziali miasmi e liquami di putrefazione che inquinano il terreno e le falde acquifere. Queste preoccupazioni igienico-sanitarie furono decisive per vincere le forti resistenze provenienti dal clero, che si oppose fieramente e suscitò la protesta popolare contro le riforme, sentendosi espropriato del monopolio sulla morte fin allora esercitato, con grave danno per le sue dottrine sul culto dei defunti, per la propria influenza sociale e per le proprie rendite.
Tuttavia nei decenni tra il 1750 e il 1790 viene istituito in tutta l'Europa più civile il cimitero posto su terreno consacrato, ma regolato dallo Stato come un vero servizio di pubblica utilità, costruito dai Comuni secondo un modello uniforme, razionale, ordinato, igienicamente sicuro, collocato in spazi distanti dalla città, salubri, aperti, ornati di alberi e fiori, tale da non suscitare sentimenti di timore e di orrore, ma di serenità e di pace. Il diritto alla sepoltura in chiesa rimase in vigore solo per i vescovi e in altri rarissimi casi.
Questa tendenza alla razionalizzazione e laicizzazione della sepoltura ispira, come si ricordava all'inizio, i decreti di Maria Teresa e di Giuseppe II in Lombardia, ma trova la più compiuta e celebre formulazione nel decreto napoleonico di Saint-Cloud del 12 giugno 1804 poi esteso all'Italia con decreto del 5 settembre 1806, che fissa norme rimaste valide sostanzialmente fino ad oggi. Esso veniva a superare le regole eccessivamente rigide ed egualitarie del periodo rivoluzionario e disponeva che i corpi venissero tumulati in piccole fosse tutte uguali e a uguale distanza, scavate nel verde del prato. Su di esse poteva essere posta solo una croce o una piccola lapide con il nome e le date di nascita e morte: si eliminava quindi ogni discriminazione sociale, si riconosceva a tutti il diritto a una tomba individuale e a vedere segnato sulla tomba il proprio nome, si cancellava la vergogna delle fosse comuni in cui prima venivano gettati alla rinfusa (“alla mucchia”, dice il Belli) i cadaveri dei poveri. Tuttavia, per corrispondere a un diffuso desiderio, si dava anche la facoltà di porre sul muro di cinta o sotto portici ad esso addossati dei sepolcri singoli o di famiglia con iscrizioni commemorative; ovviamente tale concessione comportava il pagamento di un'elevata tassa comunale, destinata a rendere gratuito il funerale di chi non aveva i mezzi per versare la modesta tariffa richiesta. Dopo 10 anni i resti dei corpi venivano esumati e trasferiti in un ossario e le fosse potevano essere riutilizzate. Appositi spazi nei cimiteri dovevano essere riservati ai defunti non cattolici, divisi in quattro settori: ebrei, protestanti, suicidi e agnostici, infanti non battezzati. La divisione tese poi a scomparire, ma all'epoca fu già un'importante conquista, poichè la Chiesa non aveva mai accettato che tutti gli uomini venissero sepolti nello stesso cimitero senza distinzioni di carattere religioso.
Fu dato nuovo ordine anche ai funerali. Per i cattolici essi si svolgevano in due tempi: al mattino il feretro veniva portato dalla casa alla chiesa, dove si celebrava il consueto rito religioso, ma normalmente in forma sobria, senza gli apparati e le pompose scenografie dei tempi andati; poi esso veniva deposto in un apposito locale della chiesa parrocchiale fino alla notte, quando in forma dignitosa, ma strettamente privata, col solo accompagnamento del parroco, il carro funebre comunale lo conduceva all'ultima dimora.
Queste trasformazioni ebbero pronta eco a fine '700 anche in Casalmaggiore, dove le pratiche funerarie avevano seguito gli usi già descritti, anche se sia le famiglie che le numerose confraternite non avevano mai ecceduto nella fastosità dei sepolcri. Tuttavia gli effetti dell'accumularsi dei cadaveri sotto i pavimenti delle chiese si facevano anche qui sentire pesantemente, come testimonia il nostro grande Romani nella sua Storia di Casalmaggiore (libro VII, pp. 141-142) con una descrizione che riesce la migliore sintesi di tutto il discorso storico che ho finora delineato.
Egli ricorda che in Casalmaggiore esistevano due cimiteri nell'area della chiesa di S. Giovanni Battista (nell'attuale “Isolabella”), uno nel piazzale accanto a S. Stefano e un altro lungo la fiancata meridionale di S. Leonardo. Quindi aggiunge: “Mi pare che la distinzione dei tumuli nelle chiese sia stata in origine accordata alle sole famiglie nobili; quindi estesa ai cittadini più facoltosi, ed in appresso a tutte le confraternite del paese. In tempo di mia gioventù non s'interravano più ne' cimiteri che le persone miserabili, o quelle fra le agiate che per umiltà cristiana, disponevano di essere seppellite ne' luoghi de' poveri. Tutti gli altri cadaveri venivano seppelliti nelle chiese, a grande detrimento della salute de' viventi, e con grande indecenza delle chiese stesse, nelle quali sovente esalava un puzzo insopportabile. Questo disordine era generalmente conosciuto, ma non riparato per la difficoltà di superare un'abitudine molto antica, ed il popolare pregiudizio di credere che le anime , i cui cadaveri erano stati nelle chiese tumulati, godessero suffragi maggiori. Durante però il saggio governo dell'immortale Maria Teresa, imperadrice, correva la voce che per ordine sovrano dovessero rimanere soppressi tutti i sepolcri delle chiese, e che i cadaveri dovessero essere interrati in appositi fopponi (voce lombarda che indica la fossa per la sepoltura) fabbricati fuori dell'abitato”. In previsione di ciò il sacerdote Francesco Gnocchi nel suo testamento del 1779 dispose a favore del Comune un legato di 1000 lire destinato alla costruzione del nuovo cimitero che si andava ormai progettando. Infatti il governo austriaco nel 1775 aveva inviato a Casalmaggiore l'abate Giovanni Bovara con il compito di sopprimere tutte le confraternite divenute ormai inutili, causa di scandalo e sempre in lite fra di loro e con i parroci. Il Bovara eseguì l'incarico con rapidità ed efficienza e confiscò i loro cospicui patrimoni, destinandoli al finanziamento di servizi pubblici del tutto innovativi. Vennero infatti fondate scuole di leggere e scrivere e riformato il ginnasio barnabitico, rinnovati gli istituti di assistenza e di beneficenza e la somma di L. 6000 venne assegnata alla creazione di un nuovo cimitero. Essa venne autorizzata nel 1780 da Maria Teresa e il Comune, individuato il terreno adatto in una località ben fuori dal centro abitato, vicino a una cappelletta detta del Gesù (nella zona dell'attuale via del Gesù) di proprietà dell'arciprete Guglielmo Porta, lo acquistò e diede inizio alla costruzione, terminata poi nel 1788, anno in cui si cominciò a seppellire secondo i moderni criteri riformatori e, con lungo lavoro, a riesumare gli antichi cadaveri per trasferirli nella nuova sede e risanare gli edifici religiosi. Il cimitero del Gesù rimase in funzione per decenni con generale soddisfazione e solo verso il 1870 si profilò l'esigenza di costruirne uno nuovo e più ampio.
La vera e propria rivoluzione che si era attuata nella concezione e gestione della morte, mentre portò al crollo di certe cerimonie, di certe forme di devozione, di certi testamenti e delle antiche confraternite, fece sentire gradualmente i suoi effetti anche nell'immaginario collettivo e all'idea di un Dio vendicativo e terribile subentra quella di un Dio clemente e misericordioso, all'incubo raccapricciante dei defunti martirizzati nel fuoco dell'inferno o del purgatorio che invocano le preghiere e le offerte dei vivi, succede la visione consolante dei defunti che sopravvivono in un aldilà indefinito, che ci hanno lasciato, ma ci attendono e con i quali ci ricongiungeremo. La morte, l'evento più inquietante dell'esistenza umana, viene addomesticata ed esorcizzata, riconducendola all'ordine naturale delle cose, evento iscritto fatalmente nel ciclo di nascita e fine di ogni essere vivente. Si riduce il dominio del sacro e dell'autorità ecclesiastica su ogni momento e aspetto della vita, senza che da ciò derivi il rifiuto della fede religiosa, che, se ben intesa, non è negazione, ma riconoscimento dell'autonomo spazio dell'uomo e della sua libera coscienza.
Tutto ciò incide nella cultura e nella sensibilità del tempo e trova profonda eco anche nell'arte e nella letteratura: basti pensare alla poesia sepolcrale e notturna di impronta preromantica che si diffonde in tutti i paesi ad esprimere i sentimenti di alta e malinconica meditazione e di tenero rimpianto che la tomba ispira, mentre essa nel carme foscoliano viene celebrata nel suo significato storico e politico e diventa custode delle memorie e dei valori più elevati, che stimolano la virtù dei “forti” e nutrono la civiltà e l'ansia di libertà dei popoli.
Ma forse l'espressione più emblematica della nascente società borghese che si sta formando nel primo '800 diviene l'epitaffio funebre che la famiglia detta per conservare il ricordo del congiunto. Introdotto quasi di soppiatto, come abbiamo visto, dalle leggi napoleoniche e collocato quindi lontano dalla tomba, sul muro perimetrale del cimitero, esso venne dapprima richiesto dalle famiglie più agiate e di più alto rango sociale, che l'avevano sempre avuto anche nelle chiese, ma gradualmente la domanda si estese e si democratizzò, divenne comune a sempre più ampi strati della società, come segno non tanto di vana ostentazione, ma del nuovo concetto borghese della dignità personale propria di ciascun individuo, senza distinzioni di ceto e di ricchezza. Se prima a volere un'epigrafe sulla tomba era perlopiù il nobile per esaltare le “grandi “ imprese compiute, ora anche il professionista, il mercante, l'artigiano, le nuove élites della borghesia sentono l'esigenza di sopravvivere idealmente nella memoria di chi li ha conosciuti e di coloro che attraverso l'epigrafe vengono a conoscere gli aspetti più degni e memorabili della loro esistenza e della loro personalità. E le qualità per cui il defunto borghese vuol essere ricordato non sono più i titoli e l'antichità della stirpe, ma le doti d'ingegno, di onestà, di laboriosità che ha mostrato, i meriti e i traguardi conseguiti nella vita civica e sociale, soprattutto le virtù manifestate in ambito domestico, l'affetto dato e meritato all'interno della famiglia. L'epitaffio diviene quindi una rapida narrazione biografica , la sintesi nei termini più essenziali di una vita, che contiene, quasi in un messaggio indirizzato ai posteri, gli elementi che hanno fatto degna l'esistenza terrena del defunto e per cui egli vuol continuare a vivere non più in un aldilà metafisico, ma innanzi tutto nella viva memoria dei viventi.
Le epigrafi rivestono quindi sotto questo aspetto un profondo valore umano, ma anche sociologico, ideologico ed antropologico e meritano quindi di essere considerate come autentici e significativi documenti storici. Gli esempi che possiamo trarre dal consistente fondo di epigrafi funebri esistente nel nostro Archivio comunale, credo che ne offrano sicura testimonianza. Come mi propongo di dimostrare in un
prossimo studio.