All'indomani della proclamazione dell'Unità d'Italia le classi dirigenti, formate in gran parte da proprietari e borghesi che avevano guidato vittoriosamente il processo risorgimentale, scoprirono con profondo stupore e sconcerto che l'Italia reale era ben diversa da quella che nel loro idealismo patriottico avevano immaginato e che sarebbe stata un'impresa estremamente ardua e faticosa inserire la nuova nazione nel consesso dei più avanzati Stati europei, rispetto ai quali censimenti, studi, inchieste subito avviati andavano spietatamente mettendo in luce tutta la distanza.
Uno degli aspetti che più dolorosamente colpirono i nostri governanti fu la constatazione, in un paese che si era sempre vantato d'essere culla della civiltà e della cultura, che la massima parte dei suoi cittadini non sapeva né leggere né scrivere e che su meno di 22 milioni di Italiani gli analfabeti superavano i 14 milioni, con una percentuale media del 78% e in tutto l'antico Regno delle Due Sicilie quasi del 90%. Anche la Lombardia, dove pure l'istruzione elementare aveva goduto di particolari attenzioni da parte del governo austriaco fin dal Settecento, il tasso di analfabetismo raggiungeva nel 1861 circa il 60% e in provincia di Cremona addirittura il 68.5%. Una situazione resa ancora più grave dal fatto che il fenomeno riguardava, senza molte differenze, tutte le classi d'età, penalizzava in modo sensibile le donne e presentava una forte connotazione di classe, con un profondo divario tra la borghesia e i ceti popolari e soprattutto tra le aree urbane e le aree rurali, dove le scuole, come vedremo anche in Casalmaggiore, soffrivano di enormi carenze in numero, qualità, efficienza e la scolarità era inferiore di almeno 20 punti.
Tuttavia si può con sicurezza affermare che i governanti tanto della Destra che della Sinistra storica, pur sulla base di differenti concezioni politiche ed ideali e con diverse sensibilità sociali, non si arresero di fronte a questa deprimente situazione e, pur gravati da un carico immenso di problemi e con mezzi di bilancio quanto mai limitati, misero la questione scolastica al centro della loro azione politica, ben coscienti che sull'istruzione e la formazione delle giovani generazioni si giocava molta parte del destino della nuova Italia e del suo progresso non solo in campo intellettuale, ma anche civile ed economico. E, sia pure con molta lentezza e contraddizioni, i risultati non tardarono a delinearsi e la piaga dell'analfabetismo andò attenuandosi: in campo nazionale nel censimento del 1871 era al 69%, nel 1881 al 62%, nel 1901 al 50%. In Lombardia il progresso fu ancora più rapido e sensibile e il tasso di analfabetismo risultò del 45% nel 1871, del 37% nel 1881 e del 22% nel 1901.
L'asse portante della legislazione scolastica del nuovo Regno fu, com'è noto, la legge Casati emanata nel 1859 per il Piemonte, ma poi estesa a tutto il territorio nazionale dopo il 1861 e rimasta sostanzialmente in vigore, con modifiche e aggiornamenti, fino alla riforma Gentile del 1923. Essa aveva il merito di fissare alcuni principi fondamentali di grande civiltà e lungimiranza, che, anche se non immediatamente attuati, segnavano in modo sicuro le linee guida per l'azione futura. In primo luogo essa stabiliva che la frequenza scolastica divenisse obbligatoria per tutti i fanciulli, maschi e femmine, dai 6 ai 12 anni, estendendo quindi a tutti, su un piano paritario, il diritto-dovere di ricevere un'istruzione uguale e del tutto gratuita. Sembra a noi una cosa ovvia, ma in realtà bisognò vincere l'opposizione di vasti settori reazionari o conservatori, convinti che lo Stato non dovesse sobbarcarsi un peso troppo gravoso per le sue finanze e che fosse irragionevole fornire un'istruzione a strati popolari che non ne sentivano il bisogno e non erano in grado di dedicarsi utilmente allo studio; questo poi era per loro, destinati a svolgere nella vita lavori puramente manuali, del tutto superfluo se non dannoso, perchè avrebbe suscitato vane illusioni e pretese di cambiare stato, oltre che pericoloso per l'intera società, perchè avrebbe favorito moti di ribellione e di protesta o, addirittura, il socialismo, il cui fantasma, per dirla con Marx, si aggirava come un incubo nelle menti della borghesia degli anni '80, come si intravvede, a un'attenta lettura, anche in molti dei documenti che citeremo.
In secondo luogo la legge si ispirava al principio che, pur lasciando libertà ai privati di istituire proprie scuole, lo Stato doveva creare un sistema scolastico pubblico con istituti di ogni ordine e grado fondati su criteri di laicità ed estranei ad ogni concezione ideologica o confessionale; il che significava andare contro il secolare predominio esercitato dal clero in campo educativo e mettere in discussione il suo controllo sulla formazione dei giovani.
E questo perchè lo Stato liberale riteneva di poter realizzare attraverso la scuola due fondamentali obbiettivi della sua azione politica: l'unificazione linguistica, come elemento essenziale anche dell'unità politica e spirituale del popolo italiano, con la formazione di una lingua che superasse la barriera localistica dei dialetti e fosse strumento di comunicazione “d'ogni sorte di concetti tra tutti gli Italiani”, secondo l'auspicio di Manzoni; e quello di “fare gli Italiani”, cioè di creare nelle nuove generazioni una coscienza nazionale comune attorno a certi valori civili e morali, che l'insegnamento scolastico aveva appunto il compito di trasmettere. Di qui il rilievo che assunse nella scuola ottocentesca quella “pedagogia patriottica” che, sorta con caratteri progressivi e democratici, assunse via via forme “piccolo borghesi”, divenendo funzionale alla formazione del buon cittadino, devoto alla Patria, al Re, all'Autorità, e del buon padre di famiglia laborioso, onesto, amante dell'ordine e della pace sociale, custode dei valori domestici, contento di compiere il proprio dovere e del proprio stato, per quanto umile.
Sono gli ideali che trovarono esemplare espressione nel libro “Cuore” di De Amicis (1886) e in tutti i libri di lettura della scuola primaria fino a pochi decenni fa, ma che il Ministero della Pubblica Istruzione per primo si incaricava di affermare e di diffondere con i propri programmi e circolari. “Non bisogna dimenticare che la scuola primaria intende formare una popolazione, per quanto sia possibile, istruita, ma principalmente onesta, operosa, utile alla famiglia e devota alla Patria e al Re. […] Considerino bene [i maestri] che dalla scuola primaria i figliuoli del popolo debbano ritrarre conoscenze e attitudini utili alla vita reale delle famiglie e de' luoghi, e conforto a rimanere nella condizione sortita dalla natura, anziché incentivo ad abbandonarla”: così il ministro dell'Istruzione pubblica Michele Coppino in una circolare del 7 febbraio 1887.
Con la legge Casati in campo scolastico, come in ogni altro settore delle istituzioni pubbliche, lo Stato ritenne che, in un paese diviso da secolari contrasti e particolarismi regionali, occorresse dar vita a strutture fortemente centralizzate e gerarchiche, per cui attribuì al Ministero e ai suoi organi centrali e periferici tutti i poteri riguardo all'ordinamento generale, ai programmi, ai metodi didattici, ma poiché doveva fare i conti con risorse limitate, riservò a se stesso le competenze per l'Università e il triennio del Liceo classico, dove si formava la classe dirigente, mentre delegò tutte le spese per l'istituzione, il funzionamento e il personale delle scuole primarie ai Comuni, che dovettero addossarsi un gravoso onere finanziario, ma acquistarono in materia ampi e quasi autonomi poteri.
Tali compiti divennero ancor più impegnativi dopo l'emanazione della legge voluta dal ministro Coppino del 15 luglio 1877, con cui si intese rendere effettivo l'obbligo scolastico, affermato dalla legge Casati, ma largamente evaso nei primi anni d'assestamento del Regno. Essa infatti prescriveva che tutti i bambini dai 6 ai 9 anni dovessero frequentare il corso elementare inferiore di tre classi (I elementare inferiore, I elementare superiore e II classe, successivamente I, II e III), sostenendo alla fine un esame di proscioglimento dall'obbligo; in caso di esito negativo l'alunno doveva proseguire fino a 10 anni. Nel caso poi il Comune istituisse una scuola festiva o serale, il “disobbligato” era tenuto a frequentarla per un altro anno. I genitori dovevano assicurare la frequenza dei figli, pena una multa che, in base alla legge, andava da 0,50 centesimi a 10 lire, ma che rimase di rarissima applicazione, anche perchè impossibile da riscuotere. Ai Comuni spettava il compito di istituire un corso inferiore anche nei piccoli centri abitati e di controllare con la massima cura l'assolvimento di questo dovere civico, che poi dal 1882 costituì condizione indispensabile per essere inserito nelle liste elettorali ed esercitare il diritto di voto. Le elementari proseguivano poi con un corso superiore di due classi (III e IV, poi ridenominate IV e V dal 1888) con al termine un esame finale o, per gli studenti che intendevano iscriversi alle superiori, un esame di ammissione.
La stessa legge Coppino ridefinì, rispetto alla Casati, i programmi delle classi dell'obbligo: “prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino, la lettura, la calligrafia, i rudimenti della lingua italiana, dell'aritmetica, e del sistema metrico”, un programma, come si vede, ridotto all'osso, che teneva realisticamente conto di ciò che si poteva pretendere in una scuola di tutti.
La grossa novità era che per la prima volta scompariva dai programmi l'insegnamento della religione e su ciò ovviamente si scatenarono i contrasti tra i cattolici e i laici, poiché questi, in nome della libertà di coscienza, volevano che i maestri di classe, laici, la insegnassero solo agli alunni i cui genitori ne facessero richiesta. Senza entrare nel merito, dirò solo che anche in Casalmaggiore la questione fu aspramente dibattuta per decenni con vari e mai decisivi aggiustamenti, e, come si sa, trovò soluzione solo con l'avvento dello Stato fascista e con il Concordato, che, affermando che “L'Italia considera fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica l'insegnamento della dottrina cristiana”, lo estese anche a tutte le scuole secondarie, dove non era mai stato materia di studio.
I programmi delle elementari vennero poi meglio articolati e approfonditi dal R. D. 15 settembre 1888, ma, mentre essi dovevano essere applicati integralmente nelle scuole urbane, venivano molto ridotti e semplificati nelle classi rurali dell'obbligo, dove si trovano, è detto a chiare lettere, “alunni ordinariamente meno svegli e meno disposti alla riflessione e allo studio” e dove, ed è dire tutto sulla situazione delle scuole di campagna del tempo, “il maestro dovrà badare prima di tutto all'igiene, al pericolo che la scuola diventi il centro di propagazione di certe malattie, agli odori nauseanti, ecc.”.
Delineato così un ampio, necessario quadro di riferimento, vediamo come il Comune di Casalmaggiore organizzò e gestì il proprio sistema scolastico elementare. Più che sulle strutture burocratiche e amministrative o le tematiche pedagogiche, punterò l'attenzione sui problemi di maggior rilievo politico e sociale connessi con la frequenza scolastica, in continuità con il discorso sviluppato nei precedenti articoli sulle condizioni di difficoltà e di disagio in cui vivevano gran parte dei ceti popolari, e insieme sui convinti sforzi compiuti dalla Comunità perchè l'istruzione e l'educazione divenissero esigenza e diritto di tutti.
Quanto alla presenza nel territorio, le scuole elementari del capoluogo erano da lungo tempo funzionanti e ben assestate, formate da due corsi completi, maschile e femminile, di 5 classi ciascuno e con un insegnante in ogni singola classe. Ben diversa era la situazione delle scuole rurali. Il Comune si impegnò dopo l'Unità a istituirne una in tutte le sue frazioni e già dal 1870 le 12 principali (Agoiolo, Vicobellignano, Vicoboneghisio, Villanova, Rivarolo, Brugnolo, Capella, Vicomoscano, Casalbellotto, Quattrocase, Roncadello e Fossacaprara, escluse quindi solo quelle minuscole di Valle, Caminata e Staffolo) erano dotate di due scuole, maschile e femminile, ciascuna con le tre classi dell'obbligo. Le due frazioni più popolose, Rivarolo e Casalbellotto, avevano anche una sezione promiscua (un fatto rarissimo all'epoca) delle due classi superiori di IV e di V. Era il minimo indispensabile, ma tanti problemi rimanevano aperti.
Anche in Casalmaggiore naturalmente le scuole primarie erano sottoposte alle leggi e agli ordinamenti dello Stato, al blando controllo del Consiglio scolastico provinciale presieduto dal Prefetto (e poi dal Provveditore) e alle periodiche visite di ispettori governativi assegnati al Circondario, che esercitavano una supervisione sul funzionamento e sull'andamento delle singole scuole e classi. Ma per il resto l'Amministrazione comunale aveva la piena responsabilità e direzione dei suoi istituti e tutte le spese ricadevano sul suo bilancio con un'incidenza consistente e crescente man mano che il sistema progrediva e si regolarizzava. Nel 1876 la pubblica istruzione incise complessivamente, tra spese obbligatorie e facoltative, per L. 46.634, e nel 1885 per L. 54.416, con un incremento dell'8.5% (1 lira degli anni '80 equivaleva a circa 8000 di oggi).
Il sindaco era la più alta autorità scolastica e a lui erano rivolte tutte le istanze e relazioni del personale e delle singole scuole, a lui e alla Giunta facevano capo tutti i problemi, su cui era poi chiamato a deliberare il Consiglio. La nomina di un direttore didattico, di cui pure si avvertiva la mancanza, verrà a lungo rinviata fino agli anni '90, per risparmiare uno stipendio, ma anche perchè l'Amministrazione voleva tenere nelle proprie mani un settore considerato del massimo rilievo. Il sindaco si valeva della collaborazione di un Consiglio scolastico comunale, da lui presieduto e composto da 6 membri, con il compito di sorvegliare l'andamento di tutte le scuole presenti nel territorio (Asili, Elementari, Tecniche e Ginnasio). Riguardo alle primarie in particolare esso nominava anche degli ispettori e delle ispettrici, a ciascuno dei quali per un anno era affidata la cura di una singola scuola, rispettivamente maschile e femminile, nominava le commissioni per gli esami di fine anno e quella esaminatrice del concorso per l'assunzione dei maestri, formata da tre membri.
Casalmaggiore aveva nel tempo costituito un sistema scolastico elementare assai articolato, che cercava di venire incontro a tutte le esigenze del territorio e di cui l'Amministrazione era giustamente orgogliosa, perchè solo una minoranza di Comuni si mostravano sensibili ai problemi educativi. Un “Rapporto sullo stato dell'istruzione primaria e popolare per la provincia di Cremona”, redatto nel 1870 per l'Amministrazione provinciale, aveva ben messo in luce la generale arretratezza in questo campo: se le scuole urbane, già da tempo stabilizzate e frequentate da studenti di famiglia borghese o in genere piuttosto evoluta, funzionavano in modo soddisfacente, le scuole rurali della provincia si presentavano generalmente come “una larva di insegnamento, una finzione e talvolta una derisione della legge” e “coprivano sotto lusinghiere parvenze palpitanti miserie”: “luride, anguste, malsane hanno pei fanciulli che vi son dentro stipati sembianze di una immonda prigione”. Molti amministratori infatti trascuravano le scuole e, per non appesantire, anche a se stessi, le tasse, cercavano di tagliare il più possibile sulle spese e in specie sugli stipendi dei maestri “poveri proletari dell'istruzione retribuiti al di sotto del minimo fissato dalla legge”; i sindaci poi spesso “fanno indecoroso mercato di questo nobile ufficio, ponendolo quasi all'incanto al miglior offerente” e perfino “costringono con minacce di licenziamento il misero docente a rinunciare con patto segreto ad una parte del già meschino suo pane quotidiano”. Sembra di sentir parlare di certi ricatti praticati ancor oggi da certe aziende.
Nulla di simile avveniva, per quanto risulta, nelle scuole casalasche e anzi le relazioni della Giunta comunale che accompagnavano ogni anno la presentazione del bilancio ai consiglieri testimoniano un'estrema attenzione per il problema e un'acuta percezione dell'importanza del momento formativo per la crescita umana, culturale e professionale dell'individuo ed anche del beneficio che viene a tutta la comunità da cittadini capaci e maturi. Bastino in merito poche citazioni: nel 1878 la relazione afferma: “Questa piccola città nella misura di sue forze non è seconda alle maggiori nell'amore e nello zelo per l'istruzione” e nel 1881 che Casalmaggiore in ciò “ha il vanto di non avere competitori tra i comuni tutti rurali del Regno”, in quanto, si dice nel 1885, dedica “quasi il quarto dell'intero bilancio a favore di così importantissimo servizio pubblico”. Del resto anche nella relazione dell'ispettore governativo prof. Achille Sanfelice del 15 aprile 1889 sulla sua visita alle nostre elementari, che pur non risparmia severe critiche su certi aspetti particolari, leggiamo “Anzitutto devo rivolgere una parola di schietto e ben meritato encomio a codesta Onorevole Amministrazione per l'impiego annuo di una sì forte somma a favore dei pubblici studi. Ciò mi dà norma sicura del grado di colta civiltà cui qui si è già arrivati e la somma stanziata nei bilanci comunali per le scuole è il vero termometro col quale si misura l'amore o il disamore al civile progresso in generale e in ispecie al miglioramento intellettuale e morale delle masse popolari”.
Più volte i vari sindaci indicano con estrema lucidità gli obbiettivi che, dedicando tante cure e risorse al settore scolastico, si propongono di raggiungere. Veramente emblematico di una certa concezione non solo della scuola, ma anche dei rapporti sociali, è quanto scrive il sindaco dott. Tommaso Braga nella circolare inviata a inizio d'anno alle scuole, come di consueto, il 20 settembre 1883: “Formando l'istruzione primaria la principale preoccupazione del Municipio, che vi profonde molto denaro”, il sindaco “fà speciale assegnamento sull'attitudine e sullo zelo degli insegnanti” per conseguire i fini dell'istruzione e dell'educazione, “i quali debbono più principalmente consistere nella soda e fruttifera coltura, nella gentilezza degli animi e nel miglioramento della pubblica moralità”. “La scuola popolare, che plasma lo spirito del fanciullo, ed è la chiave per la soluzione del problema sociale, deve istruire ed educare ad un tempo, deve preparare l'uomo per i bisogni della vita ed occuparsi a formarne il carattere. Quindi, messi in disparte specialmente nelle scuole rurali tutti gli esercizi inutili, le astrazioni aritmetiche, le teorie grammaticali, tutto ciò che è superfluo, che è puramente articolo di lusso, bisogna indirizzare l'insegnamento popolare al duplice scopo pratico di moralizzare i figli del popolo con una sana e soda educazione informandone l'animo all'amore della virtù, al sentimento del dovere, al sacrificio, al risparmio, alla carità, al reciproco rispetto e di stabilire un solido legame di fratellanza tra la scuola, il campo e l'officina, tra il libro, la zappa e l'incudine, di ottenere insomma che l'istruzione dia mano al lavoro, principale fattore del benessere sociale, mezzo efficace a diminuire il numero de' malcontenti e degli spostati”.
In un'analoga circolare del 15 ottobre 1885, il sindaco avv. Poltronieri esorta i maestri ad “ispirare negli allievi il culto dell'amore al lavoro, alla famiglia, alla patria...il sentimento della fratellanza con quanti son loro compagni di fatiche, di gioie e di dolori, il rispetto delle opinioni altrui, la gratitudine per coloro che li guidano, li correggono, li sostengono”; sul piano didattico raccomanda loro di non badare troppo alla forma, ma di curare la sostanza: “si favorisca lo sviluppo e non il facchinaggio dell'intelligenza” e perciò, in uno slancio di fede positivistica, “alle materie dei programmi governativi si aggiungano le più essenziali nozioni di fisica, di agricoltura, di arti e mestieri, perocchè sia possibile distruggere errori e superstizioni che le moderne scienze condannano”. Ma il sindaco denuncia anche con forza le cose che non vanno. Innanzi tutto molti ancora sfuggono al dovere di istruirsi, per cui raccomanda caldamente ai genitori di iscrivere i figli alla scuola dell'obbligo e anzi annuncia che il 15 novembre riapriranno in città e in tutte le frazioni le scuole festive o di ripetizione post-obbligo “perchè gli scolari non dimentichino quanto hanno imparato”. Inoltre il profitto degli alunni è gravemente carente e non risponde “alle giuste esigenze del maestro che vi spende le sue fatiche, e del Comune che vi profonde somme cospicue; perocchè siasi constatato che pochi sono gli alunni che si presentano agli esami, e sempre pochissimi sono i promossi”. E questa in effetti era la cruda realtà, che i dati statistici pienamente confermavano.
Che in Casalmaggiore il livello dell'istruzione fosse ancora alquanto depresso, lo aveva accertato il censimento del 1871: su una popolazione di 16.090 abitanti sapevano solo leggere 651 individui (4%), sapevano leggere e scrivere 5592 (34.8%), erano analfabeti 9847 (61.2%). Anche il principio dell'obbligo scolastico stentava ad affermarsi: nel 1874 i bambini dai 6 ai 12 anni nel Comune sono 1904, ma gli iscritti alla scuola sono solo 1483 (77.8%); le cose migliorano dopo la legge Coppino e nel 1885-86 gli obbligati tra i 6 e i 9 anni sono 964 e gli iscritti 839 (87%) e questo rapporto si mantiene pressochè uguale fino alla fine del secolo.
Ma, per valutare quanto fosse sentita e diffusa la necessità dell'istruzione e per misurare il grado di efficienza e di profitto raggiunto nelle scuole, più del semplice numero degli iscritti contava quello dei frequentanti e ancor più quello dei presenti agli esami e dei promossi. E sotto questo profilo la realtà era assai deludente, come ben dimostra il quadro statistico complessivo riprodotto in questa pagina.
Le 10 classi delle Elementari urbane (5 maschili e 5 femminili), ciascuna dotata di un proprio maestro, avevano una frequenza abbastanza regolare, ma i risultati erano scadenti, o almeno molto inferiori a quelli desiderati dai docenti. Ad esempio (ma era fenomeno che si ripeteva tutti gli anni), nell'a. s. 1887-88 la I classe maschile aveva 46 iscritti, dei quali 40 si presentarono all'esame, ma solo 20 vennero promossi. Nello stesso anno la V maschile aveva 21 alunni, 18 sostennero l'esame e 10 furono i promossi. Le cose però andavano assai peggio nelle frazioni, malgrado l'intervento del Comune fosse stato massiccio e avesse portato all'istituzione in ciascuna, come si è detto, di una scuola rurale di 3 classi per l'assolvimento dell'obbligo. Poiché le sedi scolastiche erano precedentemente fatiscenti e malsane, nel 1875 venne perfino deliberata una spesa di ben 203.000 lire per costruire dappertutto nuovi edifici, che, su progetto dell'assessore ing. Carlo Mosca, vennero portati a termine nel 1883.
Ma il male non si poteva sanare con belle aule, perchè dipendeva dalla miseria e dalle condizioni di vita morale e intellettuale delle famiglie e dell'ambiente in cui gli alunni erano immersi. La stessa struttura delle scuole rurali era tale da aggravare, e di molto, queste carenze, perchè tutte, senza eccezioni, erano costituite da una classe unica che raccoglieva sotto un unico maestro gli alunni delle tre classi dell'obbligo. Si formavano pluriclassi ingestibili, che nelle borgate maggiori raggiungevano i 60-70 scolari, in cui svolgere un'attività didattica diveniva pressochè impossibile e il profitto di conseguenza risultava mediocre, come non cessavano di denunciare i poveri docenti. In più, se anche si riusciva a convincere i genitori ad iscrivere i figli, la frequenza era tutt'altro che regolare, condizionata da tanti fattori: la lontananza dalla scuola, le malattie, il freddo invernale, che nelle aule portava spesso la temperatura sotto lo zero, e soprattutto l'impiego dei bambini nei lavori campestri, che provocava il fenomeno generalizzato dell'abbandono per molti mesi dell'anno. Per ovviare a ciò si era introdotto il metodo di svolgere verso il 20 di marzo degli esami “semestrali”, che davano la misura del profitto raggiunto; poi le aule si svuotavano e gli alunni a malapena rientravano dopo la mietitura a sostenere gli esami finali intorno a metà luglio.
Uno dei migliori maestri del Comune, Alessandro Calidoni insegnante nella scuola di Rivarolo del Re, così sintetizzava nella relazione di fine anno i “meschinissimi” risultati ottenuti nel 1887-88 nelle sue tre classi unificate maschili: alunni iscritti 72; alunni frequentanti in media 58; alunni mancanti a scuola abitualmente senza giusto motivo 10; alunni presenti all'esame finale 45; alunni promossi 29; alunni rimandati 16. Un altro ottimo maestro, Giovanni Bernardi, dichiarava nel medesimo anno che nelle 6 classi di Vicobellignano (3 maschili e 3 femminili) gli iscritti erano stati complessivamente 110, i frequentanti 86, i presenti all'esame 74, i promossi 54.
Tale situazione, se induceva talvolta gli amministratori ad amare riflessioni sugli scarsi frutti di tanta cure e denari spesi, gettava spesso nello sconforto e nell'avvilimento i protagonisti di questa guerra quotidiana contro la miseria e l'ignoranza: i maestri e le maestre, di cui non abbiamo ancora detto nulla, ma di cui converrà occuparci in un nostro
prossimo incontro.