Nel
precedente articolo di questa rubrica ho parlato dell'inchiesta svolta a Casalmaggiore nel 1888 per l'assegnazione ai poveri della città di un sussidio, in esecuzione del lascito testamentario di L. 6000 disposto in loro favore dalla nobile milanese Giuseppina Bonacossa, vedova di Francesco Chiozzi e cognata di Luigi Chiozzi. L'accurata indagine, che aveva preso in esame la condizione economica di tutte le famiglie del capoluogo e delle Vicinanze, aveva accertato che 586 famiglie vivevano nel bisogno ed erano meritevoli di un contributo: esse costituivano ben il 45% della popolazione, un dato che da solo dimostra quanto misere fossero nella Casalmaggiore del tempo le condizioni delle classi popolari (mi sia consentito qui fare ammenda di un errore: nell'articolo avevo tenuto conto solo della popolazione del capoluogo e non di quella delle Vicinanze, per cui avevo calcolato al 50% la percentuale dei poveri che avevano ricevuto il sussidio).
Ma per avere una visione completa del problema del pauperismo nel nostro territorio, si deve pensare che la popolazione urbana rappresentava la parte più progredita e relativamente “agiata”, ma che assai più difficile era l'esistenza della popolazione rurale residente nelle frazioni, dedita nella quasi totalità al lavoro agricolo. Oggi tra “cittadini” della città e “contadini” del contado non esiste più alcuna differenza sul piano civile, economico e sociale, ma per secoli, e fino si può dire alla seconda guerra mondiale, il divario era stato fortissimo. Il centro urbano era la sede esclusiva di tutte le attività politico-amministrative, degli uffici, delle professioni, delle scuole post-elementari, della massima parte del commercio e dell'artigianato e in esso risiedevano tutti i maggiori possidenti, padroni delle migliori e più estese proprietà fondiarie, ma che in città avevano costruito i loro palazzi e si recavano in villa solo per curare i loro interessi e ricevere l'omaggio feudale dei loro sottoposti (per testimonianza diretta mi è stato raccontato che al passaggio della carrozza del padrone ancora nel '900 la gente del paese si inginocchiava devotamente). La mancanza di agevoli strade rendeva estranei e quasi incomunicanti i due mondi, ma ad accrescere le distanze erano soprattutto le disparità di ricchezza, di cultura, di costumi, di “civiltà”, e le classi superiori nutrivano un senso di profondo disprezzo verso la rozza e primitiva razza dei “villani” (la “satira del villano” era in effetti un genere letterario di tradizione secolare). Disprezzo del resto condiviso anche dai ceti popolari urbani, i quali tendevano a distinguersi da chi consideravano inferiore e a far proprio il punto di vista dei potenti piuttosto che schierarsi con i più sventurati di loro. Atteggiamento del resto non scomparso neppure oggi, se si pensa al successo che raccolgono tanti xenofobi e demagoghi con la loro propaganda contro gli stranieri, gli zingari, gli emarginati e ogni genere di povertà.
Per comprendere quindi quanto pesasse nel nostro Comune la piaga del pauperismo, occorre che allarghiamo il nostro sguardo dalla città alle “ville”, dove risiedeva la grande maggioranza della popolazione, visto che, in base ai dati del censimento del 1881, su un totale di 15.648 abitanti, quelli del capoluogo erano 3695 e quelli delle frazioni 11.953, e dove questi in massima parte traevano da vivere dal lavoro dei campi. Tra essi vi erano certamente differenze di condizioni e di reddito, ma per chi possedeva un fazzoletto di terra, come i piccoli e piccolissimi proprietari prevalenti nella nostra zona, e per tutti i salariati la povertà era condizione abituale e la fame rischio sempre incombente.
La conoscenza diretta e particolareggiata della vita del contadino casalasco ci è consentita da un documento di eccezionale rilievo per il nostro tema e rimasto poco conosciuto e utilizzato nella ricerca. Voglio parlare della “Monografia compilata per cura del Comizio Agrario di Casalmaggiore. presidente Sig. Giuseppe Mina. Relatori: Giuseppe Mina, Ing. Giacomo Stefanini, Avv. Gioacchino Chinetti”, che reca il titolo: “Il Circondario di Casalmaggiore (sub-regione della bassa pianura asciutta)”. L'opera venne redatta nel 1880 come contributo specifico all'Inchiesta agraria diretta da Jacini che all'epoca si stava svolgendo in tutta Italia per avere finalmente un quadro di conoscenze sull'agricoltura nazionale, in vista delle necessarie riforme.
L'agricoltura infatti, come è ben noto, costituiva il settore fondamentale dell'economia italiana all'indomani della formazione dello Stato unitario e circa il 70% della popolazione attiva trovava lavoro nelle campagne, ma le sue condizioni erano estremamente arretrate riguardo sia ai metodi di conduzione e di lavorazione che allo status socio-economico dei contadini. La più avanzata e responsabile classe dirigente della nuova Italia si preoccupò subito di questo ritardo storico che colpiva l'intero territorio di un paese che per condizioni naturali e climatiche sembrava destinato a uno sviluppo agricolo d'eccellenza, ma che invece si trovava agli ultimi posti fra le nazioni civili, con bassissimi indici di produzione e di rendita.
Per studiare la situazione e trovare i rimedi opportuni, come sempre avveniva nell'Italia appena riunificata, che per prima cosa aveva bisogno di conoscere se stessa dopo secoli di separazione, si pensò di creare una commissione d'indagine, ma il progetto si potè realizzare solo con l'avvento al potere della Sinistra sotto il governo Depretis, quando il Parlamento, con la legge 15 marzo 1877, istituì una Giunta perché svolgesse una “Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola”. A presiederla fu chiamato il cremonese Stefano Jacini (1826-1891), un conservatore moderato e cattolico, di sicura fede liberale e democratica, deputato e ministro nei governi della Destra, che aveva maturato una profonda competenza nel campo dell'agricoltura attraverso la grande e fiorente azienda con annesso un moderno filatoio per il lino e la seta che la famiglia possedeva a Casalbuttano e attraverso viaggi di studio compiuti in diverse nazioni europee per apprendervi le più avanzate tecniche colturali. Su questi temi egli aveva già pubblicato nel 1854, a soli 28 anni, un ampio saggio ancor oggi importante: La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole della Lombardia, apprezzato anche dal Cavour, che nutriva lo stesso appassionato interesse per il rinnovamento dell'agricoltura.
La Giunta di quell'inchiesta agraria che da lui prese il nome condusse i suoi lavori con estremo scrupolo e competenza fino all'aprile 1885 e, valendosi dell'apporto di istituti specializzati e di studiosi d'ogni parte d'Italia, riuscì a comporre un quadro quanto mai approfondito dell'agricoltura italiana. I risultati furono consegnati a 15 grossi volumi di Atti, riguardanti le varie circoscrizioni in cui era stato suddiviso lo Stato e pubblicati man mano che l'indagine su ciascuna veniva portata a termine. L'ultimo volume, contenente la relazione conclusiva di Jacini, fu edito nel 1886.
Per quanto riguarda la X Circoscrizione, comprendente tutte le province lombarde, l'inchiesta venne pubblicata a Roma nel 1882 nel volume VI degli Atti, diviso in due corposi tomi. Esso è aperto dalla relazione finale redatta dallo stesso Jacini che aveva voluto dirigere i lavori sulla Lombardia, seguita in allegato da parecchie monografie scritte da specialisti e dedicate a singole province e territori. A chiudere il volume è proprio la relazione che tratta del Circondario di Casalmaggiore nella sua parte cremonese, i distretti di Casalmaggiore e di Piadena, mentre i distretti di Viadana e Bozzolo vennero giustamente uniti al resto del Mantovano. L'opera venne compilata, come abbiamo detto, per cura del locale Comizio Agrario dal suo presidente Giuseppe Mina, che ricoprì vari incarichi amministrativi in ambito comunale e fu tra i fondatori del Circolo Garibaldi, dall'ing. Giacomo Stefanini, sindaco tra il 1890 e il 1893 e poi nel 1895-96 e a lungo consigliere provinciale tra il 1885 e il 1897, e dall'avv. Gioacchino Chinetti, un esperto a me noto solo per un opuscolo sull'imposta fondiaria edito sempre dal nostro Comizio Agrario nel 1884. La monografia casalasca fu dalla Giunta considerata degna, oltre che della pubblicazione, anche dell'encomio e del premio d'incoraggiamento ed è in effetti un lavoro ampio (comprende le pp. 883-931 del VI volume) e assai articolato (come indica anche il semplice indice qui riprodotto). Essa rappresenta a tutt'oggi la più organica sintesi sul settore produttivo rimasto fino a tempi recenti trainante nella nostra economia.
La parte più ampia della monografia è dedicata alla trattazione scientifica della nostra agricoltura sotto il profilo tecnico ed agronomico, ma io rivolgerò la mia attenzione in special modo alla sua sezione finale, che riguarda più direttamente gli uomini e le loro condizioni di vita.
Il tema su un piano generale non è certo nuovo ed esiste in merito una vasta bibliografia, ma credo che le pagine della relazione, alle quali unicamente farò riferimento, abbiano per noi un interesse particolare, perchè ci consentano un incontro diretto e approfondito con la realtà concreta del nostro mondo rurale.
La proprietà fondiaria nel distretto casalasco è estremamente frazionata: predominano i piccoli possessi inferiori ai 20 ettari e talora di un solo ettaro, diffusi sono i medi, tra i 20 e gli 80 ettari, rari i grandi con più di 100 ettari.
Il carico fiscale, consistente in un'imposta fondiaria statale e in una sovrimposta dei Comuni e della Provincia, a detta dei relatori risulta gravosissimo rispetto alla rendita netta e viene quantificato in circa 39 lire per ettaro. Da notare che l'imposta diretta è ancora calcolata sulle misure e la qualità dei terreni determinate dal censimento di Maria Teresa entrato in vigore nel 1760 e rettificato due volte soltanto, per cui vi sono fondi privilegiati e altri danneggiati dai mutamenti intervenuti.
Le grandi proprietà sono quasi tutte date in affitto e le poche condotte in economia vengono affidate dai padroni a fattori di loro fiducia; di quelle medie una buona metà sono affittate, ma i contratti frenano, più che favorire, qualunque progresso, perchè il proprietario, cui spetterebbero le spese per le migliorie, ha unicamente interesse a percepire il canone e l'affittuario, cui competono, oltre all'affitto, le spese per gli attrezzi di lavoro, le scorte dei cereali e il salario dei coloni, non ha alcun incentivo a investire del suo.
I grandi e medi fondi, sia quelli a conduzione diretta sia quelli affittati, sono lavorati da coloni, che si distinguono in due categorie: gli obbligati (detti anche famigli o bifolchi) e i disobbligati. I primi vengono assunti con contratti assai brevi, da un S. Martino all'altro (l'11 novembre segna per convenzione seguita anche oggi la fine dell'annata agricola) e sono completamente alle dipendenze di un solo padrone, alloggiano in cascina con la famiglia, curano il bestiame e il mangime, eseguono tutti i lavori loro ordinati per la coltivazione dei vari prodotti. La sua retribuzione fissa è annualmente di L. 383, in piccola parte in moneta (solo L. 50) e tutto il resto in natura: vino e mezzo vino, che vale in media L. 10 ad ettolitro, melicotto, che vale per ettolitro L. 12, frumento a L. 20 per ettolitro, olio e lardo, 10 chili di sale, a 55 centesimi per chilo, un paio di scarpe; in più l'alloggio in cascina è calcolato all'esoso prezzo di L. 40. In genere la moglie lavora con il marito (e forse ancora più di lui) e le viene riconosciuto un salario di L. 217. Per un calcolo in valori attuali si tenga presente che, secondo gli indici ISTAT, una lira del 1880 equivale a L. 7014 di oggi (circa 3,62 euro). In definitiva, concludono ottimisticamente i nostri relatori, “i coloni obbligati vivono senza stenti una vita miserabile bensì, ma sicura da ogni primo bisogno”.
Il colono disobbligato o avventizio viene chiamato al bisogno, specie nei periodi di raccolto, e quindi lavora circa 190 giorni all'anno; viene compensato con una paga giornaliera di L. 1,30, oltre a 1/4 o 1/5 del mais che lavora e ad alcuni altri prodotti, per un totale annuo calcolabile in L. 380.
Gli avventizi, che vivono in condizioni precarie, non hanno spesso una dimora stabile, restano per lunghi periodi inattivi e si abbrutiscono nell'ozio, sono considerati i maggiori responsabili dei numerosissimi furti campestri, per fortuna in genere di modesta entità e magari neppure denunciati, che potranno ridursi con il progresso civile, ma non cessare, perchè provocati dal bisogno e dalla fame.
I relatori giudicano nel complesso soddisfacenti i rapporti tra i padroni e i loro salariati: non esiste una gradazione gerarchica, ognuno cerca di compiere al meglio il proprio dovere, anche perchè il colono manca certo di qualunque istruzione ed educazione, ma in genere è naturalmente sveglio ed ha un carattere dignitoso, rispettoso ma non servile e se il padrone gli insegna, apprende prontamente.
Il sistema della mezzadria, fino a 40-50 anni prima dominante, è stato quasi completamente abbandonato; dove sopravvive si ha una colonìa parziaria, che, secondo una consuetudine secolare, assegna al colono 1/3 del frumento, 1/4 dell'uva e metà del melicotto. In questa forma di contratto l'immobilismo e il rifiuto di compiere migliorie e investimenti è ancora maggiore: il mezzadro perchè manca assolutamente di capitali, il padrone perchè non vuole spendere e si accontenta di percepire la sua parte di raccolto.
I piccoli fondi fino a 15-20 ettari sono tutti condotti in economia dal proprietario e dalla sua famiglia, con l'aiuto, quando occorre, di coloni a giornata.
Dove la proprietà è più frammentata, ma anche in quella più vasta, l'agricoltura è praticata con i metodi di coltivazione più antiquati e tradizionali, che il Comizio agrario con scarsi risultati si studia di modernizzare. I relatori citano in proposito vari esempi.
La rotazione predominante è quella biennale, con metà del campo seminata alternativamente a frumento e a granoturco, e risulta difficile rimuovere questa consuetudine, anche se gli esperti raccomandano un avvicendamento almeno triennale, con l'introduzione di piante da foraggio, che favorirebbe anche l'allevamento del bestiame (che infatti nella nostra zona è scarso e utilizzato soprattutto per il lavoro, mentre la produzione di latte e di latticini lavorati nei pochi “caselli” rimane assai limitata).
Così pure capita per la semina del frumento, il cereale più importante e diffuso. Il metodo più moderno è quello “a solco”, con il seme posto in piccoli solchi, che consente un risparmio di più di 1/3 della semente e aumenta di 1/4 il raccolto; eppure solo i contadini più aperti hanno accolto la novità e, constatano i nostri relatori, “la semina si eseguisce quasi universalmente alla volata” (“allo spaglio”, si diceva anche, cioè lanciando il seme col braccio in movimento ben coordinato con il passo, una tecnica che richiedeva grande abilità per non lasciare dei “buchi”, degli spazi non seminati), perchè si è fatto sempre così.
Infine il prodotto che ha da sempre caratterizzato l'agricoltura casalasca è stata la vite, e in questo campo si è riusciti in parte a scalfire le antiche abitudini. Infatti il sistema tradizionale era quello della vite maritata all'acero (“oppi”) o all'olmo e piantata in filari separati da strisce di terra (“le piane”) larghe circa 25 metri coltivate a cereali. Dopo altre prove ed esperimenti, dalla stessa direzione del Comizio agrario casalasco “venne ideato un sistema affatto nuovo di coltivazione che dopo parecchi anni di felice risultato...fu ritenuto il migliore sotto ogni rapporto pei terreni di questo circondario”. Denominato “vite a paletti”, il sistema, di cui si forniscono molti particolari e che ha una resa media di 3/4 chili d'uva per metro quadrato, fu presentato nel 1879 all'Esposizione agraria mantovana, “dove fu anche premiato”. Ugualmente si sono tentate strade nuove per i vitigni: alla fortana, da sempre base dei nostri vini, si sono recentemente affiancate altre varietà forestiere, specie francesi (Pinot, Sauvignon, Cabernet) e piemontesi (Barbera e Grignolino), con risultati incoraggianti per il miglioramento di un prodotto che dopo la prima lavorazione viene da secoli esportato per circa la metà e trova largo smercio presso osti e cantine di province vicine, fino a Milano. A questi segnali positivi, che provano un intenso impegno di innovazione, corrisponde però un'industria per la fabbricazione del vino che rimane “la più insipiente e la più deplorevole cosa del mondo”: “tutti in genere usano tini che forse ha inventato Noè”, mentre “lo spirito d'associazione fra proprietari è allo stato di puro desiderio”.
E' questo il punto su cui i nostri relatori insistono in mille modi: per migliorare l'agricoltura occorre soprattutto vincere “il gretto empirismo del contadino ignorante”, farlo uscire dalla sua condizione di chiusura e di arretratezza con la scuola, con corsi festivi e serali di agricoltura elementare, con le cattedre ambulanti, con l'introduzione di pratiche colturali nuove, tutto un insieme di attività che il Comizio agrario continua a mettere in atto, fino alla recente creazione di un podere modello sperimentale.
Dunque non è un mondo immobile quello del contadino casalasco, ma superare “l'autorità dell'eterno ieri” è una fatica improba, specie se egli continua a vivere ad un livello elementare d'oppressione e di miseria.
L'abitazione in cascina è in genere costituita da una sola stanza, che serve da cucina e da dormitorio per l'intera famiglia, in edifici umidi, poco illuminati e poco ventilati, quanto mai insalubri. Il contadino del resto rimane in casa solo per dormire: nella buona stagione vive sempre all'aperto e da S. Martino a Pasqua si rifugia nella stalla per scaldarsi “al calore dannoso del bestiame e del concime”, in un ambiente antigienico, ma che gli evita la spesa della legna (che non ha).
“L'alimentazione vien formata dai prodotti più scadenti del nostro suolo”. Di uso quotidiano e cibo pressochè unico nelle famiglie più povere è il mais cotto in polenta, consumato in quantità che sembrano incredibili: un uomo ne mangia nei diversi pasti circa 3 chili e mezzo al giorno, insieme a pochi grammi di formaggio e a poca verdura. La conseguenza ben nota è la diffusione della pellagra, provocata dalla carenza di vitamina PP (preventing pellagra), che da noi colpisce circa 500 individui con terribili effetti. In alcuni giorni si prepara la pasta con acqua e farina, raramente con uova, che non entrano nella dieta del contadino, come neppure le carni, né bovine, né suine, né di pollo, se non in occasioni del tutto eccezionali. Raro è pure il pane. Pesci di fiume o, in inverno, pesci salati di mare, legumi ed erbaggi completano l'alimentazione. Il vino è poco e scadente, quasi sempre il mezzo vino di seconda spremitura.
Gli abiti in tutte le stagioni sono per i maschi di fustagno, per le donne di tela di canapa o lino tessuta in casa, oppure, per le feste, di cotone colorato acquistato al mercato o dai mercanti che girano per le cascine, con l'aggiunta in inverno d'uno scialle di lana; con le stesse tele, magari reimpiegate, si confeziona la biancheria.
I bambini vengono allevati con cura, ma la mortalità infantile è terribilmente elevata e colpisce circa un quarto dei nati.
La fatica del lavoro e il misero vitto provocano gravi malattie e uno stato di debolezza endemica, che logorano il fisico e portano a un invecchiamento precoce.
L'analfabetismo è assai diffuso tra i contadini della zona, perchè i genitori non si curano che i figli frequentino la scuola, convinti che leggere e scrivere non gli sia di alcuna utilità, mentre possono essere d'aiuto nei campi durante i mesi estivi, quando infatti le aule si svuotano, e poi appena sono cresciuti.
Oggi tutti criticano il servizio militare, che allontana per 30 mesi i giovani dal lavoro, ma se questo reca effettivo danno, è vero anche che esso “costituisce una educazione forzata per la classe agricola”, perchè chi ha fatto il soldato e ha visto nuovi ambienti e fatto diverse esperienze, torna a casa più maturo e disposto al cambiamento.
In definitiva “il nostro contadino, come è di natura intelligente, è pure di buona indole; religioso assai moderatamente, si guarda dal fare il male per sentimento del bene, e molto più che per timore dell'inferno” e potrebbe quindi uscire dalla sua situazione di degrado e di primitiva rozzezza con l'istruzione e il riconoscimento dei suoi bisogni e dei suoi diritti sul piano economico-sociale: sarebbe questo, dichiarano i nostri relatori in un soprassalto (unico) di spiriti “rivoluzionari”, “il primo dovere delle classi fortunate verso questi infelici che fecondano col sudore il pane del ricco”.
Il problema oggi più discusso e intrigante riguardo al nostro Risorgimento è forse quello della mancata partecipazione dei contadini alla rivoluzione nazionale, della loro sostanziale indifferenza e passività, se non talora ostilità al movimento per la formazione dello Stato italiano. Non è qui il caso di affrontare il tema, ma la nostra monografia, letta in trasparenza, mi pare che fornisca una parziale, ma convincente risposta. E' certo che una classe sociale che viveva in uno stato di isolamento, di sfruttamento, di privazione culturale e di estraneità al mondo esterno, ai fatti e problemi della realtà politica e della storia, costretta a pensare solo alla fatica quotidiana e alla sopravvivenza, abituata a chiudere tutto il proprio orizzonte “tra due zolle”, per dirla col Verga, quale l'abbiamo conosciuta anche attraverso la semplice testimonianza dei nostri relatori, quasi ignorava quanto accadeva fuori dalla cascina e dal paese e non poteva comprendere, né tanto meno condividere, le idee, i progetti, le azioni dei patrioti.
Ippolito Nievo, che visse a lungo nel Mantovano e ben conosceva le nostre terre e i nostri contadini, nel suo “Frammento sulla rivoluzione nazionale” coglieva perfettamente nel 1861 le ragioni di questo distacco: “Sì, il popolo illetterato delle campagne abborre da noi, popolo addottrinato delle città italiane...esso diffida di noi perchè ci vede solo vestiti coll'autorità del padrone...avversa i nostri intendimenti, rifiuta con noi comunanza di speranze e di sacrifizi nella vita pubblica perchè vede noi rifiutare la stessa comunanza a lui nella vita privata. Vendica con l'indifferenza alla nostra chiamata la nostra stessa indifferenza alle sue piaghe secolari...Mal si insegna l'abbicì ad uno che ha fame; mal si presenta l'eguaglianza dei diritti a chi subisce continuamente gli improperi d'un fattore”. Parole forti, sicuramente da meditare.