In uno studio scritto per questo giornale alcuni mesi fa (
Novembre di passione: arriva la piena del Po, ottobre 2009) ho rievocato la perpetua lotta sostenuta da Casalmaggiore per difendersi dalle inondazioni del suo fiume, causa insieme di benessere e di rovina, e in particolare la disastrosa rotta di tutti gli argini verificatasi tra il 3 e il 4 novembre 1705, che sommerse gli abitati e le campagne dell'intero territorio e provocò innumerevoli vittime e distruzioni.
All'indomani la Comunità dovette affrontare una situazione di estrema emergenza e mettersi all'opera per realizzare grandiosi lavori di riparazione e costruzione di nuovi argini, in gran parte con i propri mezzi. Infatti se dopo l'unità d'Italia la sicurezza idraulica del territorio passò alle competenze dello Stato, in precedenza ciascun Comune doveva provvedere alla propria difesa, secondo la visione frammentaria e particolaristica che si aveva della cosa pubblica in antico regime (e che qualcuno vorrebbe resuscitare anche oggi).
Tra il 1705 e il 1712 Casalmaggiore dovette sostenere l'enorme spesa di L. 153.385 con un impegno straordinario delle finanze pubbliche e della proprietà laica, e perciò chiamò a contribuire a queste opere che andavano a beneficio di tutti anche gli ecclesiastici, proprietari di un immenso patrimonio fondiario, che in base all'approssimativo catasto svolto attorno al 1550 era valutato in pertiche 16.549 (20,30% del territorio tassabile), ma che secondo il più preciso catasto teresiano del 1760 risultò del 26,85% dell'intero perticato (vedi l'articolo
Clero e nobiltà nei libri del censimento, settembre 2009). Ciò diede inizio a un'aspra controversia tra autorità civili e clero, documentata in ben due cartelle del nostro Archivio storico (cart. 49 e 50 intitolate:
Concorso degli ecclesiastici alla riparazione degli argini; il documento di sintesi di tutta la vicenda, scritto dall'archivista comunale e qui riprodotto e trascritto per comodità di lettura, si trova in cart. 50, fasc. 6). La questione del resto non era nuova e per i secoli XVII e XVIII ci ragguaglia la cart. 48 (
Beni ecclesiastici convenuti per il pagamento dei carichi), che tratta appunto delle numerose convenzioni concluse tra Comunità e clero per sottoporre almeno a una parziale tassazione i beni ecclesiastici, in deroga alla totale immunità di cui essi godevano in base alle leggi della Chiesa e al diritto canonico.
Il problema dell'immunità fiscale va dunque inquadrato nell'ambito di un tema ben più ampio, quello del particolare status e dei privilegi che spettavano al clero nella società di antico regime, tema di grande complessità, di cui però mi par giusto delineare qui a larghi tratti alcuni aspetti, non privi di attualità.
Sappiamo che a partire dall'Ottocento le relazioni tra Stato e Chiesa sono state regolate, secondo le dottrine liberali e democratiche, dal principio del separatismo, che vuole i due poteri, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Ben diversa era la concezione dominante dall'antichità all'età dell'assolutismo: ogni potere legittimo discende da un'unica fonte, da Dio, che ha stabilito due supreme istituzioni, la sacra autorità del pontefice e il potere dell'imperatore, assegnando loro il compito di reggere il mondo rispettivamente nell'ordine spirituale, guidando l'umanità verso il fine della salvezza eterna, e nell'ordine temporale, guidandola verso la felicità terrena assicurata dalla pace e dalla giustizia: siamo alla ben nota teoria propria dei papi medievali e di Dante, sintetizzata nell'immagine delle due spade e del sole e della luna, i duo luminaria magna. Papa e imperatore devono collaborare e tuttavia la Chiesa per la superiorità dell'origine divina e del proprio fine trascendente, possiede un primato di dignità e una suprema, anche se indiretta, autorità anche nelle cose temporali, mentre lo Stato ha il dovere di proteggere la Chiesa, mettendo al suo servizio la forza del suo braccio secolare e lottando contro i nemici e le eresie che la minacciano. Il bene della società esige quindi la stretta alleanza tra trono e altare, che si sostengono reciprocamente: l'altare ponendo tra i doveri religiosi anche la fedeltà dei sudditi al sovrano per diritto divino, il trono fondando la propria unità politica anche sull'unità religiosa e quindi sullo Stato confessionale, che riconosce come unica religione quella cattolica ed esclude qualunque altro culto, non solo negando ogni diritto civile e politico a coloro che non seguono la religione dominante, ma impedendone la presenza nella società (a parte gli ebrei, accettati in condizione d'inferiorità, in attesa della loro conversione). Si ebbe in questo senso un grande progresso quando, a partire dall'Illuminismo settecentesco e poi via via con la Rivoluzione francese, Napoleone, gli inizi del liberalismo, a tutti i cittadini vennero riconosciuti uguali diritti civili e furono ammessi tutti i culti, pur rimanendo il cattolicesimo religione di Stato. Lo Statuto albertino del 1848, carta costituzionale del Regno d'Italia fino al 1946, si apriva con il famoso articolo “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”.
Durante l'antico regime, a fianco dello Stato confessionale si poneva la Chiesa come istituzione originaria e sovrana, retta da un'autonoma legislazione canonica, con una propria struttura statuale ordinata nei vari organismi della Curia (le Congregazioni), che tutti facevano capo al “sovrano pontefice” (titolo di un importante e ormai classico testo dello storico cattolico Paolo Prodi), una figura composita, che, almeno fino alla caduta del potere temporale, ma in fondo anche oggi, era insieme capo spirituale della Chiesa universale-Popolo di Dio e monarca di uno Stato dotato di un saldo impianto politico, diplomatico, economico, che ha sempre partecipato spesso con un ruolo primario, specie in passato, alle vicende storiche dell'Italia e dell'Europa, perseguendo suoi specifici obbiettivi e interessi.
Complessa era anche la condizione del clero, che oggi è giuridicamente parificato agli altri cittadini, ha gli stessi diritti e doveri e fa pienamente parte della società civile, svolgendo in essa la sua particolare funzione sacerdotale, ma che in passato la Chiesa voleva ben distinto e separato dal laicato: avendo ricevuto gli ordini sacri, il prete viveva nella società secolare a motivo del ministero assegnatogli, ma faceva parte esclusivamente di quella societas perfecta che si considerava la Chiesa ed era interamente soggetto sul piano giurisdizionale e disciplinare alla gerarchia ecclesiastica e alla normativa canonica (del resto anche oggi possiamo notare che, seguendo tradizioni ormai fossilizzate, molti chierici fanno fatica a conciliare il loro status di cittadini italiani con la pregiudiziale obbedienza e identificazione con le ragioni del Vaticano, spesso prevalenti). La Chiesa, per garantire ai propri sacerdoti una condizione di particolare prestigio e autorevolezza, volle che lo Stato concedesse loro una serie ampia di privilegi, che oggi sono stati tutti ridimensionati o aboliti, ma che per secoli li posero al di fuori e al di sopra del diritto comune e della società civile.
Senza addentrarci in sottigliezze giuridiche, accenniamo al ben noto diritto d'asilo, secondo cui le chiese e gli edifici religiosi godevano d'una sorta di extraterritorialità e nessun ufficiale pubblico poteva entrarvi neppure per arrestare chi vi si fosse rifugiato dopo aver commesso un reato. Di maggior rilievo era il privilegio di foro: gli ecclesiastici non potevano comparire davanti a un magistrato ordinario, ma sia in materia civile che criminale, anche nelle cause miste tra un chierico e un laico, potevano essere giudicati solo da un tribunale ecclesiastico. Roberto Bellarmino, il cardinale che condannò Galileo ed oggi è santo nella Chiesa, si chiedeva se la reverenza che i laici sono tenuti ad avere verso i sacerdoti, non perirebbe, se questi fossero costretti a presentarsi davanti a un giudice secolare. Riportandosi a una società confessionale e clericalizzata come quella della Controriforma, l'argomento ha una sua logica, ma non si può negare che nel tempo l'effetto è stato quello di indurre la gerarchia a nascondere sempre e comunque i reati eventualmente commessi da qualche chierico, nel timore che ciò potesse intaccare il prestigio e la buona fama del clero in generale, riservando il giudizio su questi casi o al foro interno della confessione o a indagini segrete di cui nulla doveva filtrare all'esterno.
Il recente, tristissimo scandalo dei preti pedofili trova spiegazione in questa radicato costume di omertà, anche se va detto che, accanto a chi invocava la penitenza e le pene infernali, forse per la prima volta si sono sentite voci coraggiose che hanno messo in primo piano la giustizia dovuta alle vittime degli abusi e la necessità che il delitto appena conosciuto venga denunciato alla magistratura laica competente. A dimostrazione che anche la Chiesa considera ormai anacronistico il privilegio di foro e che essa è pronta a rinunciare a un potere esclusivo di giudizio finora tenacemente difeso.
Valutato su un piano storico, penso che ciò rappresenti un significativo segno di svolta, che, se sarà confermato, si pone sulla scia dell'epocale gesto di Giovanni Paolo II, il quale, in preparazione del giubileo del 2000, vincendo le resistenze di una curia sorpresa e riluttante, invocò la purificazione della memoria e il perdono per le gravi colpe commesse dalla Chiesa nella storia (la violenza delle crociate, l'antisemitismo, i roghi dell'Inquisizione, il processo a Galileo...).
Gesto tanto più apprezzabile in quanto la Chiesa ha sempre preferito presentarsi come maestra di verità eterne, immutabili e indubitabili, come infallibile interprete della rivelazione divina e della legge naturale, nel campo della fede e della scienza, della dottrina e dei costumi, ed ha atteso il 1832 per riconoscere pienamente che in effetti la terra gira attorno al sole e ancora sottilizza sulla teoria evoluzionistica di Darwin accettata da tutta la comunità scientifica.
Nella Chiesa è infatti a lungo prevalso il metodo, in verità piuttosto farisaico, non di ammettere e correggere francamente i propri errori, ma di abbandonarli tacitamente, di farli dimenticare man mano che il tempo e il progresso civile ne scopriva l'insostenibilità. Si pensi alla fatica e al ritardo con cui essa ha accolto i principi delle libertà individuali e collettive e della democrazia, che sono alla base della civiltà e delle società moderne, ma fatti propri, con molte limitazioni al proprio interno, solo a partire dal concilio Vaticano II.
Oggi a noi appare del tutto pacifico e conforme ai più certi principi etici e religiosi affermare che “la libertà di coscienza e di culto è un diritto innato di ogni uomo, che in ogni società civile rettamente ordinata deve essere riconosciuto e tutelato dalla legge”, oppure che “nessuna autorità civile o ecclesiastica ha diritto di impedire a qualsiasi persona di manifestare in pubblico e di diffondere a voce o per scritto o in altro modo le proprie convinzioni”, oppure che “ogni uomo è libero di abbracciare e professare quella religione che, col lume della ragione, reputi vera”. Chi però avesse sostenuto tali concetti fino a tempi recenti sarebbe incorso nelle più gravi condanne e anatemi da parte della Chiesa, perchè queste proposizioni, riprese testualmente dall'enciclica Quanta cura e dall'allegato Sillabo, venivano denunciate come puri deliri da Pio IX nel 1864.
L'ultimo dei privilegi riconosciuti al clero di cui volevo parlare, anche perchè legato al contenuto del nostro documento, è l'immunità fiscale, che obbligava lo Stato ad esentare dal pagamento di qualsiasi tributo i beni di tutti gli enti ecclesiastici regolari e secolari. La norma era stata definita fin dal IV Concilio lateranense del 1215 e rafforzata durante la Controriforma, in particolare con la bolla In coena Domini del 1568, e riguardava non solo chiese e conventi, ma anche i singoli chierici, esentati dai carichi sulla persona e sulle cose una volta che avevano ricevuto gli ordini minori o perfino la semplice tonsura, e veniva estesa pure alla servitù e agli affittuari delle proprietà immobiliari del clero. Ciò dava luogo a innumerevoli abusi: false vocazioni finalizzate solo all'esenzione, trasferimento al chierico dei beni di tutta la famiglia che in tal modo si affrancava da ogni onere, false donazioni a giuspatronati e confraternite di beni che restavano in godimento effettivo del laico, traffico di prodotti agricoli esentati dal dazio, e così via. In situazioni come questa, come in tante altre, l'ideale medievale, che ho sopra delineato, di una perfetta respublica christiana, in cui Stato e Chiesa agiscono in perfetto accordo in vista del bene spirituale e temporale dei popoli, cedeva il posto ad aspri conflitti e contro gli abusi era forte la protesta dei laici, anche perchè se aumentava per lasciti e donazioni la proprietà esente del clero, diminuiva la superficie tassabile e cresceva in proporzione la quota gravante sugli altri. Alla base poi stava il problema, sopra accennato, che la Santa Sede si considerava uno Stato posto dentro lo Stato laico, e riteneva che tutti i beni posseduti in ogni parte d'Italia dalle chiese locali dipendessero da lei e formassero un unico patrimonio dei cui redditi essa aveva il pieno controllo e la disponibilità. Infatti la Santa Sede si attribuiva il diritto di assegnare liberamente ricchi benefici, pensioni e commende in qualunque luogo a prelati da lei designati, e soprattutto riservava a se stessa l'imposizione su quei beni di un prelievo fiscale tutt'altro che lieve che il clero doveva versare direttamente a Roma. Quindi non avevano sempre tutti i torti gli ecclesiastici, già gravati dalle tasse pontificie, a recalcitrare quando a batter cassa erano anche le autorità civili.
La curia da parte sua, pur desiderando mantenere il monopolio della tassazione del clero, si rendeva conto che opporre un rifiuto assoluto alle richieste dei laici era ingiusto e controproducente, anche per lo stretto intreccio di interessi tra i due ordini, ma, secondo la consueta politica centralistica di Roma ed anche per evitare troppe pressioni e cedimenti in sede locale, stabilì fin dal 1215 che la cosa migliore era avocare a sé ogni competenza e che ogni prelievo fiscale sui beni ecclesiastici doveva essere richiesto a Roma e autorizzato dallo stesso pontefice. Venne quindi istituita presso la curia un'apposita Congregazione per l'immunità ecclesiastica, la quale, dopo un lungo, complesso e costoso iter processuale, poteva concedere un permesso che non intaccava il principio generale.
Si sviluppò quindi per secoli una serie di laboriose trattative tra Santa Sede e le autorità laiche, costrette a chiedere umilmente di sottoporre a imposte almeno parziali le terre del clero esistenti nel loro territorio, oppure di ottenere da esso un sussidio straordinario in casi di grave calamità e carenza dei mezzi pubblici.
In materia il caso di Casalmaggiore appare esemplare. La Comunità era riuscita a imporre tributi sui beni della Chiesa dal 1600 al 1628, ma in quell'anno un breve papale interdisse ogni pagamento e si aprì un lungo contenzioso con il clero locale. Già nel 1629 il nostro storico Ettore Lodi denunciava che i carichi dello Stato crescevano a dismisura, i terreni esenti si estendevano, il clero minacciava scomuniche a chi gli chiedeva di contribuire e i miseri laici, presi tra Scilla e Cariddi, non sapevano a che santo votarsi. Nel 1637 fu firmata tra i due contendenti una convenzione, poi rinnovata nel 1666 e ancora nel 1699, che, nella sua ultima redazione, prevedeva la totale esenzione dai carichi per le terre possedute dalla Chiesa prima del 1575, data dell'entrata in vigore del catasto voluto dalla Spagna (circa la metà del patrimonio del clero casalasco), il pagamento di 3 soldi per pertica per i terreni di antica, ma non ben documentata proprietà, e infine una tassa di 7 soldi e mezzo per pertica per le acquisizioni recenti (poco meno di un terzo del totale). Queste imposizioni comprendevano anche le normali spese per la manutenzione degli argini.
Tale era la situazione quando si verificò la catastrofica inondazione del 1705 da cui abbiamo preso le mosse. Per riparare i danni e apprestare nuove arginature occorreva un intervento straordinario e la Comunità sollecitò la partecipazione degli ecclesiastici alle ingentissime spese, necessarie anche a difesa dei loro fondi. Il clero ovviamente non potè opporre un totale rifiuto a una richiesta del tutto ragionevole, ma presentò tali riserve e cavilli che non si giunse all'accordo e quindi, come imponeva la legge canonica, venne avviata nel 1706 la causa presso la Congregazione per l'immunità ecclesiastica, affinchè decidesse la controversia. Questa, senza fretta, dopo tre anni, il 26 febbraio 1709 trasmise al vescovo di Cremona la propria sentenza: gli ecclesiastici dovevano certo partecipare alle spese comuni, ma, oltre a intervenire in tutte le fasi di ricognizione, valutazione ed esecuzione dei lavori, dovevano contribuire “per la rata solamente del commodo loro privato particolare”, cioè in modo differenziato, secondo il beneficio che le loro proprietà ricevevano dagli argini, e anzi, nel caso ritenessero che le spese loro attribuite non fossero eque, potevano far ricorso davanti al tribunale vescovile. Il clero casalasco, già di per sé sordo e deciso all'ostruzionismo, interpretò secondo i propri interessi queste ambigue disposizioni e il 16 giugno presentò al delegato del vescovo richieste che rendevano del tutto impossibile ogni soluzione: non dovevano pagare le terre insabbiate e rese infruttifere dall'alluvione; le terre che non potevano essere inondate dalla rottura degli argini, dovevano rimanere fuori dal riparto; si consentiva per questa volta che la spesa fosse distribuita ugualmente su tutte le pertiche, ma in avvenire dovevano essere tassate in rapporto al beneficio goduto, e altre simili eccezioni.
La Comunità fu costretta a presentare ricorso alla Congregazione romana, allegando anche una dichiarazione del suo ragionato Angelo Negri, in data 1 febbraio 1711, che tra il 1705 e tutto il 1709 il rifacimento degli argini era costato L.132.344, che ripartite sul perticato totale laico ed ecclesiastico, comportavano una quota di 26 soldi e 10 denari per pertica. Altri memoriali furono inviati ancora dalle due parti alla Congregazione, che però questa volta accolse le tesi della Comunità con definitiva sentenza del 22 giugno 1712.
Queste deprimenti diatribe e incessanti conflitti tra clero e laici rimasero finalmente troncati di netto nello Stato di Milano dalla benefica legislazione austriaca, tesa a riportare tutto il territorio, anche quello del clero, sotto la sovranità dello Stato e ad allontanare da esso le pretese romane: Maria Teresa migliorò nettamente le cose con il concordato firmato con la Santa Sede nel 1757 e Giuseppe II negli anni '80 eliminò sostanzialmente ogni privilegio, sottoponendo tutti i beni ad un'uguale imposta fondiaria e abolendo il diritto d'asilo e i tribunali ecclesiastici riservati al clero.