Anche se oggi l’industria del divertimento, che propone e impone quasi quotidianamente i suoi riti, ha attenuato il significato e l’eccezionalità dell’evento, l’inizio di novembre nell’immaginario collettivo dei Casalaschi è legato, o almeno lo era fino a pochi anni fa, alla grande fiera di San Carlo, alle sue luci e colori, a quella atmosfera di festa e di allegria che molti non più giovani ben ricordano non senza qualche nostalgia.
Nei secoli passati poi la fiera aveva un rilievo di gran lunga maggiore nella vita di tutta la popolazione come occasione di divertimento e di lieta convivialità, che sospendeva la normalità d’una esistenza di fatica e di stenti, ma soprattutto perché in questi giorni si chiudeva l’annata agraria, si tiravano i conti dei raccolti, si rinnovavano i contratti per gli affitti e la manodopera nei campi, si facevano le provviste per affrontare la difficile stagione invernale, si andava sulla piazza, dove il mercato offriva la possibilità, unica volta nell’anno, di comprare e vendere ogni sorta di merci con esenzione da dazi e balzelli.
Ma insieme all’euforia della fiera un altro pensiero dominava in passato l’animo dei Casalaschi in questi primi giorni di novembre: l’attesa, carica di tensione e di angoscia, di un evento insieme imprevedibile e ineluttabile, che si ripeteva inesorabile tutti gli anni, con effetti che potevano essere rovinosi e che sfuggivano in gran parte ad ogni controllo dell’uomo: la piena del Po, che in quel periodo raggiungeva il colmo della sua portata idrica e quindi della sua pericolosità.
Molti di noi hanno ben vivo il ricordo della piena del 1951, che raggiunse il suo culmine il 13 novembre, quando Casalmaggiore visse per alcuni giorni nell’incubo di essere sommersa e si salvò solo per l’eroica mobilitazione di tutta la comunità, che accorse sugli argini e col suo frenetico, ostinato lavoro oppose un’insuperabile barriera di sacchi di terra alla furia delle acque.
Fu l’ultima piena vissuta come tragedia collettiva e oggi imponenti opere di arginatura, di regimazione e bonifica del fiume ne hanno quasi annullato la minaccia e ci permettono di godere al sicuro la bellezza del suo lento, maestoso fluire.
Ma non dobbiamo dimenticare che per secoli il Po rappresentò per la nostra Comunità un nemico infido pronto a scatenarsi con incredibile frequenza e che per fronteggiarlo essa dovette sostenere enormi costi, umani ed anche economici, perché sicuramente nessun altro capitolo di spesa del bilancio comunale richiese investimenti tanto ingenti e continuativi.
Il nostro Archivio e tutti i nostri annali sono ricchissimi di notizie su questo argomento, ma io vorrei qui trattare in particolare della piena del novembre 1705, ricordata come la più rovinosa dei tempi moderni, anche perché non colpì un unico, limitato territorio, ma provocò col suo impeto numerose rotte e l’allagamento di una vastissima regione dal Cremonese alla foce su entrambe le sponde, per una superficie che gli storici calcolano superiore a Kmq. 2500.
Ma per comprendere le ragioni degli effetti micidiali che tale piena ebbe in Casalmaggiore, occorre risalire alla situazione creatasi nel ‘600, ben rappresentata nella planimetria qui riprodotta, tratta dall’Archivio Comunale (cart. 28, fasc. 3/1). Essa venne redatta nel 1669 ed è firmata “Gian Battista Amidani, Agrimensore del Stato di Cremona e della Comunità di Casalmaggiore” (una riproduzione parziale si trova in “Ettore Lodi, Memorie istoriche di Casalmaggiore, a cura di E. Cirani, Cremona 1992, pp. 170-71, con l’alterazione del nome dell’autore, di illustre famiglia cremonese, in un incongruo “G. B. Amilasi”).
La mappa mostra in tutta evidenza le trasformazioni del corso del Po verificatesi nel ‘600, accentuando un processo iniziato da secoli di continua erosione della nostra sponda sinistra. Ho già accennato in un precedente articolo (Il luogo della fiera, in Casalmaggiore, novembre 2008) all’improvvisa e radicale deviazione della corrente principale del fiume, che prima scorreva lungo la sponda destra parmigiana, ma che dal 1471 piegò verso sinistra e investì con violenza “la vasta e ben coltivata pianura”, per dirla col Romani, che si stendeva senza interruzione tra l’abitato di Casalmaggiore e la spiaggia del Po, erodendola e riducendola sempre più. Il celebre ingegnere idraulico cremonese Alessandro Capra attesta di aver visitato nel 1670 la nostra sponda per suggerire rimedi contro questa corrosione e di aver trovato che essa distava ormai 50 passi dalla piazza della città, mentre un tempo lui stesso aveva osservato la distanza di un miglio (m. 1780 circa). Una relazione di Ettore Lodi del 1659 dichiara che in anni recenti gli ampi terreni coltivati di fronte alla riva casalasca erano stati sommersi per circa 2000 pertiche da quelle che lui definisce, col suo consueto, immaginoso linguaggio, le “affamate brame del voracissimo inesorabile nostro nemico il fiume Po” (documento nel nostro Archivio, ma citato anche in Romani, VI, pp. 254-55).
La mappa dell’Amidani mostra appunto che un tempo fuori dell’argine maestro (segnato A-B) si trovava una fila ininterrotta di case (segnata C-D con la didascalia: “Borgo la metà disfatto dalla corusione”) e che tale imponente fenomeno era stato recentemente aggravato dagli argini e pennelli costruiti sulla sponda destra da Ranuccio II Farnese, duca di Parma, per favorire il porto di Sacca e spingere l’alveo del Po a piegare verso sinistra, urtando e scalzando sempre più la sponda casalasca. In particolare il pennello M-N (“Argine novo del detto Serenissimo”, cioè il duca di Parma) ha chiuso l’antico corso (K-L) e ha congiunto alla sponda parmigiana l’isola di fronte a Casalmaggiore (O-P), che infatti reca la didascalia: “Isola altre volte di Casalmaggiore al presente posseduta dal detto Serenissimo”. In seguito alle denunce della nostra Comunità il governo centrale protestò vibratamente contro il Farnese, che con questa deviazione del fiume veniva a sottrarre circa 8000 pertiche al territorio dello Stato di Milano e ad accrescere fraudolentemente il proprio, ma la contesa si risolse in un nulla di fatto.
In questa situazione gravemente deteriorata sopraggiunse l’eccezionale ondata di piena del novembre 1705, che allagò gran parte del Cremonese e del Mantovano, e poi via via i territori a valle per estesissimo spazio. L’ondata investì il Casalasco proprio nei giorni della fiera, il 3 novembre, e alle 6 del pomeriggio, secondo quanto narra l’anonimo annalista del Giardino, ruppe gli argini a Gussola, alle 22 l’argine maestro cosiddetto del Gesù di fronte all’oratorio di San Sebastiano, durante la notte del 4 quello davanti all’ospedale. Tutto l’abitato venne investito in pieno dall’urto lungo il fronte dalla Baslenga al Borgo inferiore e le acque si precipitarono senza più ostacoli per le vie con la loro immane forza distruttrice, invadendo tutta la città e le frazioni (si salvarono, pare, solo Fossacaprara e Roncadello) e spingendosi verso Viadana e Sabbioneta, che, posta in una bassura, subì pure gravissimi danni.
Le conseguenze furono tragiche: gli abitanti terrorizzati nell’oscurità fuggirono o si rifugiarono sui tetti, ma molti perirono miseramente, gran parte del bestiame annegò, i campi rimasero a lungo coperti e isteriliti da uno spesso strato di fango e di sabbia, quel poco che rimaneva del borgo aldilà dell’argine maestro, visibile nella mappa dell’Amidani, scomparve per sempre e non figura in nessuna pianta successiva, le case dei quartieri a ridosso dell’argine andarono distrutte, tutte rimasero danneggiate.
Dopo la famosa peste del 1630 la Comunità aveva deliberato di edificare per voto un oratorio a San Sebastiano, vicino ad una grande fossa comune dove erano state sepolte molte vittime del contagio, poi trasferite nel vicino cimitero del Gesù. Nell’avvallamento della precedente fossa si formò nel 1705 un vasto stagno o budrio di acque alluvionali che solo dopo decenni venne riassorbito e che infatti copre un’ampia superficie ancora nella mappa del catasto teresiano del 1723. La costruzione dell’oratorio dopo il 1630 era andata a rilento e il poco edificato venne ora spazzato via dalla piena, ma la pietà popolare, aggiungendo voto a voto, ritenne di dover ringraziare Dio anche per la fine dell’inondazione e nel 1712 venne posta la prima pietra del nuovo San Sebastiano, consacrato poi nelle forme attuali nel 1721. Sul muro esterno dell’abside si trova ancor oggi una lapide che reca semplicemente la data del 4 novembre, una linea di livello e l’epigrafe: “Huc usque Padus intumuit” (Fino a questo punto crebbe la furia del Po).
Siamo anche in grado di precisarlo questo livello. Esso è segnato sull’antica tavola idrometrica attualmente murata nel cortile dell’AIPO, accanto a San Rocco, che ho potuto visitare grazie alla gentilezza del locale responsabile. Eretta per volontà dei nostri decurioni nel 1773, essa riporta i più significativi livelli di piena e di magra del Po dal 1705 al 1868 e venne sostituita dall’attuale idrometro solo dopo la grande piena del 1872. In essa le misure sono espresse in once, e coincidono perfettamente con quanto scrive il Barili, che, spesso del tutto generico e acritico, ricorda in modo insolitamente accurato un’altra data tragica negli annali casalaschi, la piena del 13-15 novembre 1801 (Notizie storico-patrie di Casalmaggiore, Parma 1812, pp. 89-91). Egli narra che le campagne circostanti vennero sommerse e rovinate, ma il centro abitato si salvò grazie alla resistenza degli argini, alla “giornaliera e notturna opera dei lavoratori” accorsi in gran numero alla difesa, nonché, si disse, al miracoloso intervento del famoso crocifisso, ancor oggi conservato in Santo Stefano, che, come sempre in simili occasioni, venne portato in processione ed immerso nelle acque rigonfie del Po. Il Barili precisa anche che il livello delle acque nel 1801 giunse ad once 19.3/4, superiore addirittura a quello toccato nel 1705, che era stato di once 18.2/4. Poiché sull’attuale idrometro la piena del 1801 è segnata a m. 5.60 e un’oncia corrisponde a circa cm. 4, possiamo fissare approssimativamente a m. 5.55 il livello raggiunto nel 1705. Non si tratta di una mera curiosità, perché se pensiamo che la piena del 1951 toccò m. 7.64 e quella ultima del 19 ottobre 2000 si alzò, senza destare particolari timori, fino a m. 8.14, ci rendiamo conto delle profonde trasformazioni verificatesi nel corso degli anni nell’alveo del Po e nei sistemi di arginatura. Se un tempo una piena superiore a 5 metri creava il panico e oggi guardiamo con tutta tranquillità a una piena di 8 metri, è evidente che sono cambiati tutti i criteri di sistemazione idraulica. Ma su ciò lascio volentieri la parola agli esperti.
Le cartelle 28 e 29 del nostro Archivio conservano una discreta documentazione sui provvedimenti presi dalla Comunità all’indomani dell’alluvione del 1705 per riparare ai danni d’ogni genere inferti ad uomini e cose, rafforzare gli argini e le difese, far osservare norme già prima esistenti ma non rispettate, e impedire quindi di arare, di scavare fossati, di piantare alberi o siepi a meno di 6 braccia (circa m. 3,50) dal piede dell’argine. E occorre tener ben presente che all’epoca tutte le spese per il presidio idraulico del territorio non spettavano allo Stato, che al massimo poteva riconoscere parziali contributi, ma unicamente alle Comunità. Possiamo quindi capire a quale impegno anche economico fu chiamato il nostro Comune negli anni successivi. Il ragionato Angelo Negri dichiarò infatti che il Consiglio generale aveva dovuto sostenere, quasi completamente con mezzi propri, dal 2 dicembre 1705 fino al 23 novembre 1712, data del documento, la grandiosa spesa di L. 153.385 per la refezione e costruzione degli argini e lo spurgo dei dugali (i canali di scolo delle acque) rimasti insabbiati a causa dell’inondazione (cart. 28, fasc. 8/1).
Una nuova minacciosa piena seguita nel 1712 convinse però la Comunità che occorreva procedere a nuovi interventi, utili a mettere definitivamente al sicuro Casalmaggiore e poiché le finanze cittadine erano allo stremo, venne chiesta alla Camera di Milano una partecipazione dello Stato, che fu accordata per la metà della spesa. I nostri argini furono quindi visitati nel 1713 dall’ingegnere Bernardino Mazzoni, che giudicò necessario, secondo i criteri dell’epoca, piantare davanti all’abitato cinque pennelli sporgenti 40-50 braccia l’uno (un braccio è circa cm. 59), con la funzione di tener lontano dalla riva l’impeto della corrente. Il Mazzoni stimò che l’importo complessivo dell’opera sarebbe stato di L. 72.000, di cui lo Stato si impegnò a versare la metà, scontando alla Comunità il pagamento di alcuni tributi erariali. In effetti il costo dell’opera a consuntivo salì a quasi L. 82.000 e il disparere su chi dovesse accollarsi questa differenza sfociò in una causa giudiziaria, ma l’importante fu che a fine 1715 Casalmaggiore si trovò finalmente fornita di cinque solidi pennelli disposti a protezione del centro urbano lungo l’argine maestro a partire da quello denominato di S. Carlo, posto di fronte alla Piazza Vecchia, poi di S. Antonio, di S. Leonardo, di S. Leopoldo e di S. Savino, che si trovava all’altezza dell’attuale via Garibaldi, come si può vedere anche nella mappa del Catasto teresiano del 1723.
Non fu certo questo l’ultimo intervento di rafforzamento degli argini, anzi la lunga, ininterrotta sfida tra Casalmaggiore e il suo fiume, causa sempiterna di grandi benefici e di grandi rovine, è proseguita si può dire fino ai nostri giorni. Molti sono stati negli anni i momenti di terrore e di dolore e memorabile è rimasta in particolare la tremenda lotta contro le acque che i Casalesi sostennero ancora nel 1872, rievocata dalla scrittrice Neera nelle belle pagine iniziali del suo romanzo Teresa, e terminata, proprio il 4 novembre, con gravissimi danni e l’abbattimento delle case adiacenti gli argini, che, rialzati e rafforzati con le macerie e migliaia di sacchi di terra, resistettero. La massa d’acqua, dopo aver raggiunto il livello di m. 6.02, cominciò finalmente a decrescere e la città fu salva.
Quella del 1705 fu dunque l’ultima volta che i Casalesi subirono l’estrema catastrofe e da allora con l’impegno, il coraggio, lo spirito di sacrificio, il generoso civismo che li distingue(va) essi sono sempre riusciti a tenere a freno l’indocile natura del loro amatissimo nemico.