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Plebei e contadini esclusi dal Palazzo


Ho già parlato del dominio esercitato per secoli sulla Comunità di Casalmaggiore da una ristretta casta di famiglie privilegiate per nobiltà, censo e cultura, che avevano accentrato nelle proprie mani tutto il potere politico, amministrativo ed economico e si erano riservate il perpetuo diritto di governare, escludendo la partecipazione di ogni altra categoria sociale e consentendo l’accesso alla cosa pubblica solo con rigidi criteri di cooptazione. I ceti artigiani e mercantili vennero quindi sempre tenuti lontano dall’amministrazione civica e non parliamo dei contadini residenti nelle Ville (le frazioni del contado), guardati come spregevole plebe di “meccanici”.
Vorrei a questo proposito ricordare un episodio famoso nella storia patria in cui lo scontro tra il patriziato egemone e le altre classi sociali raggiunse il massimo della conflittualità. Non fu certamente un caso isolato e anzi le Ville non cessarono mai di denunciare accesamente gli abusi e le sopraffazioni di cui erano vittime, protestando soprattutto per la ripartizione dei tributi e per le eccessive spese della Comunità, che gravavano su tutti, ma andavano solo a vantaggio del centro. Perciò proclamarono più volte di volersi separare da Casalmaggiore e affrontarono a questo scopo lunghe e costose cause giudiziarie davanti al Senato di Milano, che, se non altro per solidarietà di classe, diede loro sempre torto.
Di ciò esiste copiosa documentazione nel nostro Archivio e varrà forse la pena di riprendere il discorso. Fu però tra il 1591 e il 1595 che il contrasto esplose, mettendo per un momento in crisi il predominio del ceto decurionale. La vicenda è rievocata nella sentenza di Giovan Pietro Ala (Archivio Storico Comunale, b. 7, fasc. 1), che per la sua importanza venne inserita anche negli Statuti cittadini (edizione 1717, pp. 305-312), ma è ampiamente narrata, con interpretazioni del tutto divergenti, anche da Ettore Lodi (pp. 72-77 dell’ed. Cirani, presso Turris, Cremona) e dal Romani (vol. IV, pp. 222-252; 256-263).
Gli Statuti del 1424 nella rubrica De consilio generali disponevano che esso dovesse essere formato da decurioni rinnovati ogni anno con l’elezione di 40 cittadini “buoni e sufficienti” di Casalmaggiore e di uno per ogni Villa. Questa norma chiarissima e apertamente “democratica” rimase ben presto annullata dalla prassi rigidamente oligarchica che ben presto si affermò, con consiglieri a vita, tratti da poche famiglie patrizie e nessuna partecipazione delle Ville.
Il profondo scontento di queste prese corpo nel 1591, quando esse trovarono vigoroso sostegno nientemeno che in Alfonso Felice d’Avalos, marchese del Vasto e di Pescara, appartenente a una delle più nobili casate di Spagna e forse la più illustre fra quelle trasferitesi in Italia al servizio della monarchia spagnola, che era allora feudatario di Casalmaggiore.
La nostra città in verità aveva ricevuto fin dal 1522 da Francesco II Sforza il privilegio di non poter essere infeudata, come borgo nobile e insigne e terra di confine strategicamente importante, ma poi con l’avvento della Spagna le cose cambiarono ed essa fu venduta nel 1545 ai fratelli Tommaso e Giovanni Marino, grandi banchieri di Carlo V, dotati di immense ricchezze (Tommaso si fece costruire il più fastoso palazzo di Milano, di fronte all’attuale Teatro alla Scala, ancora oggi sede del Comune, fu il nonno di Marianna (Virginia) de Leyva, la monaca di Monza, e morì in miseria; ma questa è un’altra storia); quindi venne ceduta nel 1568 a Francesco Ferdinando d’Avalos, uno dei maggiori statisti del tempo, governatore di Milano e in seguito vicerè di Sicilia (e solo il rango dei feudatari a cui Casalmaggiore venne concessa sta a testimoniare il rilievo attribuito alla nostra terra).
Dopo la sua morte il feudo venne retto dalla moglie Isabella Gonzaga, figlia del duca di Mantova Federico, la quale si trasferì anche in Casalmaggiore e vi morì nel 1579. Il feudo passò allora al figlio Alfonso Felice, che dal 1583 venne spesso a trascorrervi lunghi periodi insieme alla nobilissima moglie Lavinia Feltria della Rovere, dotata di profonda pietà e generosa fondatrice dell’orfanotrofio femminile di San Cristoforo (che si trovava all’inizio dell’attuale via Baldesio, sulla destra venendo dalla piazza).
I decurioni casalaschi erano sempre stati ostili all’infeudazione, perché violava i privilegi della città e soprattutto limitava l’autonomia del loro governo, impedendogli di esercitare come volevano il potere, e quindi si erano sempre rifiutati di prestare il dovuto giuramento di fedeltà. All’inizio tuttavia i rapporti con Alfonso Felice sembrarono avviarsi positivamente: questi teneva corte da gran signore qual era, con feste, tornei, commedie, gioco del pallone, visite di principi e tutta la città godeva di questo splendore. Però il contrasto covava ed emerse apertamente quando il feudatario, forse sollecitato dagli abitanti delle Ville, forse ricercando lui stesso il sostegno della classe mercantile e dei contadini per battere l’avversione dei nobili, decise di ripristinare alla lettera la norma statutaria sull’elezione e la composizione del Consiglio. Il 9 maggio 1591 egli emanò una sua ordinanza nella forma di sentenza arbitrale nella contesa tra il centro e le Ville: ogni anno si dovevano eleggere 26 consiglieri, cioè i 2/3 dell’assemblea, traendoli da una lista comprendente tutti gli abitanti di Casalmaggiore e delle Vicinanze giudicati idonei e capaci, mentre dovevano rimanere confermati altri 14 del precedente Consiglio per informazione dei nuovi; a questi 40 dovevano aggiungersi altri 12 consiglieri, ciascuno eletto da una Villa come proprio rappresentante (il documento fu inserito nel libro degli Statuti e si legge alle pp. 295-302 dell’ed. 1717).
La rivoluzionaria disposizione ebbe l’effetto di una bomba e la rabbia e lo sdegno della nobiltà dominante esplosero senza limiti contro questa confusione tra “nobili, plebei e villani”: gran parte di essi si ritirarono nelle loro case di campagna, rifiutando ogni partecipazione alla vita pubblica, tutti si diedero a irridere ferocemente contro i nuovi consiglieri, accusandoli di condurre la Comunità alla rovina con le loro spese eccessive e scriteriate, di perseguire solo i propri interessi e di aver ridotto l’amministrazione a una babilonia. Il Lodi parlando di questi fatti dà sfogo a un livore incontenibile contro questi “plebei e meccanici” che si sono improvvisati “grandi nocchieri” e governanti, mentre Romani esprime un giudizio assai più equilibrato e positivo. Sono pagine su cui non posso ora fermarmi, ma da leggere per capire quali fossero le distanze e gli odi fra i ceti in Antico regime.
L’esperimento di governo “popolare” largo ed esteso al contado, ebbe però breve durata, perché, morto nel 1593 Alfonso Felice, la moglie Lavinia Feltria insieme all’unica figlia si ritirò nelle Marche e incaricò il nobile cremonese Giovanni Pietro Ali, giureconsulto, di trovare una soluzione al violento conflitto tra consiglieri vecchi e nuovi. La sentenza da lui emanata il 29 dicembre 1594 restituì alla tradizionale classe dirigente tutte le sue prerogative, “perché -si legge in essa- l’esperienza ha mostrato che l’introdurre contadini in Consiglio non torna, né a loro né al pubblico, beneficio alcuno, ma piuttosto discommodo e travagli e puoca riputazione al Consiglio di questa insigne terra di Casalmaggiore”. Si prescrisse quindi l’elezione di 40 consiglieri perpetui, di cui 37 del centro e tre delle vicinanze di Vicobellignano, Agoiolo e Vicoboneghisio, che alla morte dovevano essere surrogati dallo stesso Consiglio, una vera serrata che escludeva ogni ingerenza estranea e che assicurò per secoli una piena supremazia al patriziato locale
Si prevedeva, unica modesta concessione, che le Ville avessero il diritto di presenziare ai lavori consiliari nel giorno in cui veniva fatta la ripartizione dei tributi e di conoscere le entrate e le uscite della Comunità, ma quando esse cercarono di far valere questo diritto, furono trattate in malo modo e non ottennero mai di esaminare i registri dell’estimo e di esercitare un controllo reale sulla tassazione.
Il Lodi aveva ragione di esultare, vedendo “rimettere i consiglieri vecchi e rimandare alle loro botteghe e banchi i moderni” (cioè quelli plebei e contadini di nuova nomina): il trionfo dell’oligarchia dei grandi proprietari fondiari fu completo e definitivo e non fu più messo in pericolo fino alle riforme teresiane o, se vogliamo guardare ai processi storici profondi al di là dei parziali aggiustamenti, fino alla caduta del regime fascista, per cui solo dal secondo dopoguerra si è completamente dissolto quel clima di reciproca insofferenza ed estraneità che pesava sui rapporti tra gli abitanti del centro e delle frazioni.
Poiché tuttavia la sentenza Ali era in aperto contrasto con la lettera degli Statuti, che prescrivevano la partecipazione delle Ville, ad evitare il rischio di nuove contestazioni, si richiese al Senato di Milano, il più alto organo giurisdizionale dello Stato, di correggere la norma precedente e di ratificare il nuovo sistema; in un mese, un vero record, giunse da Milano il 30 gennaio 1595 l’approvazione, anch’essa trascritta nel testo statutario (pp. 305-312 della più volte citata edizione del 1717).
Ma non c’è da stupirsi, perché proprio nel 1593 il Collegio dei Giureconsulti di Milano introdusse norme e requisiti molto restrittivi per l’ammissione al patriziato, al quale era riservato l’esercizio delle cariche pubbliche e si affermò in tutto lo Stato la volontà delle classi dirigenti di fissare rigide distinzioni cetuali e di consegnare nelle mani delle aristocrazie l’assoluta egemonia politica.
Perché gli uomini tornassero ad essere uguali e si aprisse qualche spazio alla democrazia dovevano ancora passare molti anni.

Archivio Storico Comunale di Casalmaggiore, b. 12, f. 9/3
Mobirise
Pubblicato su "Casalmaggiore", bimestrale a cura
dell'Associazione Pro Loco di Casalmaggiore
Marzo 2008

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