Il nostro viaggio alla scoperta dell’Archivio Storico del Comune di Casalmaggiore ha un inizio pressoché obbligato. In esso è infatti conservato un documento che a un eccezionale pregio estetico unisce uno straordinario rilievo per la storia della nostra Comunità e che quindi, oltre ad essere certamente il più bello del suo ricco patrimonio, offre l’immagine più nitida ed eloquente di quella che è stata la sua condizione politico-amministrativa per quasi quattro secoli, dal ‘400 alla fine del ‘700. Di esso vorrei qui parlare, partendo dal suo inquadramento storico.
Si tratta di un diploma della Repubblica di Venezia datato 21 novembre 1500 (busta 1, fasc. 7/1), rilasciato dal doge Agostino Barbarigo ai nostri ambasciatori, che contiene i cosiddetti “capitoli di dedizione”, presentati da Casalmaggiore alla Serenissima, al momento di giurarle fedeltà dopo essere caduta sotto il suo dominio, con la relativa approvazione da parte del doge. Questo atto viene quindi a definire in forma ufficiale e solenne i privilegi e le prerogative riconosciute dal potere sovrano alla nostra terra.
Avveniva infatti nel ‘400, nel periodo di formazione degli stati regionali, che quando un Comune si sottometteva, volontariamente o meno, ad un nuovo sovrano, i suoi cittadini gli offrivano la propria fedeltà e obbedienza, chiedendogli tuttavia di impegnarsi a rispettare una serie di richieste e condizioni espresse in un articolato documento, su cui veniva in seguito a fondarsi il loro rapporto politico.
In questa pratica era in qualche modo presente il principio dello scambio feudale, del signore che, al vassallo che gli giurava fedeltà e sottomissione, concedeva il beneficio e la promessa di protezione. Occorre inoltre pensare alla forte coscienza municipalistica che caratterizzava secondo la tradizione comunale ogni realtà politica, dalla grande città al più modesto borgo rurale, per cui ogni decisione aveva valore solo se assunta e approvata dall’assemblea degli uomini liberi. Malgrado le mutate condizioni e l’evidente disparità di forze, ancora nel XV secolo il signore non doveva tenere verso i sudditi che si affidavano alla sua tutela un comportamento tirannico, ma i loro rapporti dovevano essere regolati da un patto almeno formalmente concordato e paritario.
Non si trattava tuttavia di una pura finzione, perché in questo modo il principe veniva a conoscere da subito i problemi e le esigenze delle Comunità e queste a loro volta erano meglio disposte ad ubbidire al nuovo principe, se vedevano riconosciuti i loro diritti e la loro dignità.
Infatti lo stato di antico regime non era un organismo assolutamente compatto e unitario, retto da un sistema di istituzioni, di norme, di apparati burocratici fortemente strutturati e centralizzati, non era ancora lo stato moderno quale verrà formandosi nel Settecento e con Napoleone. Sia la Repubblica di Venezia, sia, e ancor più, il Ducato visconteo-sforzesco di Milano, che qui in particolare ci interessano, erano delle realtà magmatiche e in pieno divenire, dagli incerti confini, che cercavano di espandersi in tutte le direzioni, impadronendosi di tutti quei territori che rapporti di forza favorevoli consentivano loro di conquistare. Il centro del potere si trovava nella capitale, presso la corte del signore, ma poi attorno esisteva una pluralità di centri urbani, di signorie feudali, di comunità rurali che godevano di una loro significativa autonomia, anche se il signore cercava di aggregarli e di inserirli in una struttura unificata, che però veniva a somigliare più a una federazione che a uno stato assoluto.
Si deve anche osservare che il principe in questi stati ancora in formazione non aveva né la volontà, né i mezzi per sovrintendere a tutte le necessità, per cui si riservava gli essenziali poteri della pace e della guerra, della legislazione, della giustizia, della fiscalità nei loro aspetti generali, ma poi lasciava la direzione degli affari correnti di ciascun territorio alle singole comunità, dopo aver stipulato con esse quegli accordi bilaterali di cui appunto si parlava.
La trattativa che si svolgeva riguardo ai capitoli di dedizione offriva spesso alle comunità più forti e consapevoli l’occasione per realizzare le proprie aspirazioni e per strappare al principe concessioni particolarmente favorevoli. Ciò avveniva specialmente in momenti eccezionali, di debolezza e di crisi del potere centrale, quando esso, pur di garantirsi la fedeltà dei sudditi, accettava di riconoscere ampi diritti e privilegi, che poi, una volta fissati in documenti ufficiali, venivano gelosamente custoditi e fatti valere per secoli.
Il ducato di Milano attraversò uno di questi momenti di crisi dopo la morte di Giangaleazzo Visconti nel 1402, quando la compagine statale si dissolse e in tutte le città esplose lo spirito particolaristico, con l’affermazione di signori locali. Solo l’abilissima politica di Filippo Maria Visconti riuscì a ricomporre l’unità dello stato, ma a prezzo di astuti compromessi e di temporanei cedimenti, come si vide esemplarmente nel caso di Cabrino Fondulo fattosi signore di Cremona. La conseguenza più grave per Milano fu l’accendersi di un’interminabile serie di conflitti con Venezia, che colse l’occasione per scatenare una grande offensiva verso i suoi confini occidentali, mirando a impadronirsi dei territori di Bergamo, Brescia e Crema, come in effetti le riuscì di ottenere con la pace di Lodi del 1454.
Ma nel periodo trentennale delle guerre tra i due potentati anche Cremona e il suo territorio divennero obiettivo di conquista per Venezia e Casalmaggiore si trovò implicata fino in fondo nello scontro, che si scatenò in particolare dopo il recupero di Cremona da parte di Filippo Maria nel 1420. La nostra terra non ebbe mai nella sua storia un ruolo strategico e militare così rilevante come in quegli anni, per la sua posizione all’estremità orientale del contado cremonese, al confine ultimo con il Mantovano e soprattutto perché era facilmente raggiungibile dalle navi veneziane risalendo l’asta del Po, la via d’acqua da sempre di primaria importanza commerciale, ma divenuta ora percorso privilegiato per penetrare dal basso nel cuore dello stato visconteo.
Imponenti flotte con centinaia di navi grandi e piccole, compresi decine di maestosi galeoni, solcarono in quel trentennio le acque del Po: per Venezia ciò rientrava nella tradizione e le sue squadre si spinsero fino alla foce dell’Adda e quasi a Piacenza, ma anche il Visconti dovette allestire una grande flotta con base a Pavia al comando dell’ammiraglio Pasino degli Eustachi.
La guerra per fiume ebbe importanti episodi che coinvolsero pure Casalmaggiore, divenuta avamposto stabile dei due eserciti che alternativamente la occupavano e stabilivano un forte presidio a guardia del suo Castelnuovo, malandato e incapace di resistere alle potenti bombarde del tempo, ma tenuto in qualche modo efficiente a costo di gravi spese e rimasto bene o male sede di un castellano fino al primo ‘500.
Si batterono per la conquista della nostra terra i più celebri condottieri in campo (il Carmagnola, il Piccinino, Francesco Sforza…) e durante la fase finale del conflitto si svolsero nelle nostre acque due famose battaglie navali, che videro la prima, il 28 settembre 1446, la clamorosa vittoria dei Veneziani (celebrata nella grande tela tuttora visibile nel Palazzo ducale di Venezia), e la seconda, il 16 luglio 1448, il prevalere di Francesco Sforza, il quale grazie ad essa potè definitivamente riunire Casalmaggiore al Ducato di Milano, che la tenne poi per sempre, a parte un breve ritorno della Serenissima tra il 1499 e il 1509.
La nostra terra fu nei trent’anni dal 1420 al 1450 vittima passiva e impotente del conflitto dei grandi e ne subì tutte le conseguenze, con saccheggi, distruzioni, violenze; essa fu innumerevoli volte assediata e occupata dai due contendenti, che si avvicendarono nel dominio in successione tanto rapida che è difficile (e qui senz’altro impossibile) ricostruirne tutte le fasi. Nondimeno il suo ceto dirigente seppe tenere la barra dritta in questa tempesta e non solo salvare il salvabile, ma, trattando abilmente con il vincitore del momento, riuscì anche a ottenere una corposa serie di riconoscimenti, diritti, prerogative, che trasformarono il suo profilo politico, accrebbero con benefici sostanziali e perpetui la sua autonomia, aprirono un nuovo corso nella sua storia.
Per questo affermavo all’inizio che il diploma veneziano possiede un valore fondamentale per chi voglia comprendere a fondo, in un’ampia prospettiva storica, le vicende della nostra Comunità, perché esso contiene l’ultima e riassuntiva conferma, prima delle dominazioni straniere, di una lunga serie di analoghi documenti che riconobbero a Casalmaggiore ampi privilegi e lo status giuridico di “terra separata”, mantenuto poi per quasi quattro secoli di fronte a tutti i successivi dominatori, un titolo politicamente qualificante e prestigioso che ha lasciato profonde tracce nel suo aspetto urbanistico, nei suoi monumenti, nei suoi costumi, nel suo spiccato senso civico e insomma anche nella sua vita civile di oggi. Cerchiamo di ripercorrere rapidamente le tappe di questa ascesa.
Casalmaggiore era rimasta inserita nel contado di Cremona fino al 1409, anno in cui venne annessa da Venezia, che approfittò della dissoluzione dello stato visconteo e la tenne fin quando ebbe inizio il lungo scontro di cui si è detto. La nostra Comunità da lungo tempo non tollerava di dipendere da Cremona, di appartenere al suo contado, poiché ciò implicava una totale soggezione ai suoi magistrati e al suo governo e una condizione di inferiorità indegna di un borgo “nobile e insigne”, che aveva ormai raggiunto un alto livello di popolazione, di ricchezza, di sviluppo economico ed aspirava quindi a reggersi autonomamente insieme alle ville del suo distretto.
Negli anni 1420-1427 il Visconti riprese e perse più volte Casalmaggiore, che, dopo la famosa (e manzoniana) battaglia di Maclodio e la conseguente pace di Ferrara del 1428, rimase tuttavia in possesso di Venezia. Ma furono anni decisivi per realizzare il disegno di distaccarsi da Cremona e affermare la propria autonomia, in quanto la Comunità seppe ottenere da Filippo Maria dei patti di dedizione che la costituirono come “terra separata” e “da per sé”, del tutto estranea al contado di Cremona e in un rapporto di diretta e immediata dipendenza dal sovrano.
Il duca d’altra parte era troppo debole in quel momento per opporsi e anzi vedeva di buon occhio la concessione di ampi privilegi ai centri minori per indebolire la potenza delle grandi città, spezzare unità territoriali pericolosamente ampie, creare antagonismi interni che potevano essere abilmente manovrati a favore dell’uno o dell’altro, secondo la volontà del signore. Fu infatti in quegli anni che il contado cremonese subì gravi amputazioni: a parte la perdita, certo non voluta dal duca, di Crema, ottennero la condizione privilegiata di “terre separate” altri borghi importanti, collocati in posizione strategica ai confini: Soncino, Castelleone, Pizzighettone, Fontanella (ora nel Bergamasco).
Il primo decreto rilasciato dal duca a favore di Casalmaggiore (citato, ma non conservato) fu del 1423, ma la svolta fondamentale si ebbe nel 1427, quando il signore approvò i capitoli di dedizione presentatigli dagli uomini della Comunità, compresa la decisiva clausola che concedeva ai nostri magistrati il mero e misto impero, cioè la piena autonomia giurisdizionale nel civile e nel criminale, e l’assoluta separazione e segregazione da Cremona sul piano amministrativo e fiscale. In verità neppure questo atto è sopravvissuto alle tante traversie del nostro Archivio, e quindi non sono note la data e le circostanze precise dell’emanazione, ma lo conosciamo, perché venne ripreso in un successivo privilegio accordato da Niccolò Piccinino, come capitano generale di Filippo Maria, l’8 luglio 1438 (b.1, fasc. 2/1) e confermato a Milano dallo stesso duca l’8 settembre 1438, con l’importante aggiunta dell’elenco nominativo delle ville del distretto casalasco (b.1, fasc. 3/1). La serie dei privilegi ducali concessi alla nostra terra prosegue con il diploma di Francesco Sforza da Cremona datato I° gennaio 1442 (b. 1, fasc. 3/2), che contiene, insieme a conferme sostanziali, alcune clausole restrittive, secondo la politica di maggior accentramento e di maggior favore verso le città perseguita ormai da Filippo Maria e che sarà caratteristica anche dello Sforza, quando succederà al suocero dal 1448. Infatti il Visconti emanò il 7 novembre 1441 il famoso decreto De maiori magistratu, con cui restituiva ai magistrati cittadini la giurisdizione nelle cause per i delitti più gravi e nelle cause di appello, per le quali quindi i centri rurali erano obbligati a ricorrere ai tribunali della provincia. Ciò intaccava in un punto essenziale le prerogative delle “terre separate” ed anche Casalmaggiore insorse contro questa violazione dei suoi diritti che la rendeva ancora soggetta a Cremona e aprì quindi un contenzioso contro la città che andò avanti per decenni e si risolse con una sentenza del Senato di Milano nel 1498, che ribadiva la piena autonomia e separazione della nostra terra, ma che, con sostanziale compromesso, lasciava a Cremona le cause d’appello (b.1, fasc. 5/2).
A conclusione non posso tralasciare un semplice cenno a un altro evento capitale: la compilazione da parte di un’apposita commissione di consiglieri casalaschi e la successiva approvazione da parte del sovrano del libro degli Statuti, esemplati su quelli di Cremona del 1388. Di essi non esistono manoscritti, ma solo, com’è noto, edizioni a stampa pubblicate nel 1554, 1590, 1592 e 1717. La vicenda si colloca tradizionalmente nel 1424 e presenta aspetti problematici e bisognosi di chiarimento, ma qui mi preme solo sottolineare che essi rimasero in vigore per secoli come primaria fonte normativa, espressione di un originario jus proprium e degni d’essere ristampati anche nel XVIII secolo, quando gran parte degli articoli erano caduti in desuetudine o erano stati sostituiti da più recenti decreti del principe, perché considerati un venerabile documento, che testimoniava, insieme alla lunga sequenza dei privilegi sopra esaminati, lo status giuridico di Casalmaggiore come terra che “sta per sé”, orgogliosa della propria autonomia e del proprio autogoverno.
Definito il quadro storico che ne rende comprensibile il significato e il fondamentale rilievo, possiamo ora accostarci direttamente al documento veneziano da cui eravamo partiti. Ma questo sarà argomento di un
successivo articolo.