Come ricordavo nel
precedente articolo, il soldato semplice Umberto Saba tra l'inizio di agosto e il 20 ottobre 1915 fu custode e traduttore dei prigionieri austriaci nel campo di internamento di Casalmaggiore. In questo periodo egli scrisse otto composizioni poetiche, che prima pubblicate in rivista, andarono a formare nella prima edizione del Canzoniere del 1921 una sezione delle
Poesie scritte durante la guerra. Di esse solo il sonetto
Accompagnando un prigioniero rimase nell'edizione definitiva della raccolta stampata da Einaudi nel 1961, ma tutte si possono leggere, corredate da ogni desiderabile apparato filologico, in: Umberto Saba,
Tutte le poesie, a cura di A. Stara, Introduzione di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, I Meridiani, 1988. Nel 2001 è stato edito analogo volume di
Tutte le prose.
Per ragioni di spazio la nostra lettura del “canzoniere casalasco” riguarderà solo le poesie e i passi di maggior spicco sul piano poetico, psicologico e biografico. Ho dovuto, purtroppo, eliminare anche gli a capo dei versi. Seguo l'ordine cronologico di composizione.
LA SVEGLIA
(in Tutte le poesie, pp. 844-45)
Suonò la sveglia; alla fatica pronte / trovai le membra; balzai su beato; / ben che sempre al soldato / più chiudere che aprire gli occhi alletta, / che ha i piedi infermi ed il cuore malato. / “Sveglia - gridava il mio compagno – sveglia, / chè andiamo al fuoco”. / Così per celia gridava, per gioco; / come ogni sera io gli dicevo: “Picco, sei di picchetto!”
Questa lirica, come la successiva Addio ai compagni, venne scritta a Casalmaggiore, ma riguarda episodi vissuti nella caserma di Milano, dove Saba, richiamato alle armi, aveva trascorso un breve periodo di addestramento. La lirica è composta di tre strofe, di cui riporto solo l’ultima. Dopo una notte trascorsa in un sogno angoscioso, con profonde implicazioni nel passato, lo squillante, allegro suono della sveglia irrompe a dileguare le inquietanti immagini e riporta il poeta alla realtà presente, vitale e positiva, anche se faticosa per il soldato “che ha i piedi infermi ed il cuore malato”. Ecco inquadrato il tema dominante di tutto il corpus casalasco: la vita militare è grama e opprimente, ma è fatta di cose e fatiche concrete, meno dolorose dei fantasmi della memoria e della solitudine, perchè lo chiama ad un impegno storico, lo unisce in amicizia ed allegria cameratesca agli altri uomini.
ADDIO AI COMPAGNI
(in Tutte le poesie, pp. 846-47)
Voi quasi m'odiavate, ed io v'amavo / cari compagni. / Un soldato, lo so, non sono bravo / come voi, io da voi troppo diverso, / troppo fuori dei ranghi. / M'odiavate per questo, ed io v'amavo / quali siete; uno solo siete in tanti. / Così oggi, alla sveglia, a veder vuota / la camerata; / pensando voi verso la meta ignota, / (che dove fosse solo Iddio sapeva, / Iddio e il Maggiore); / sì, lo confesso, nel mio vecchio cuore, / uso ad ogni saluto, ad ogni sgombro, / ebbi quasi un dolore.
Anch'io parto, domani. / Troverò dov'io giunga altro più nulla / che voi; del Carso dentro l'aspre forre, / ove son morti di Trieste in vista, / non la chiese, e dà il sangue alla conquista / il buon guerriero che la guerra abborre. / Là un ugual grigio verde, uguali faccie, / ed il cannone, mi darà l'oblio / d'altro assai, torrà in me le vostre traccie. / Oggi ancora, ai fanciulli appena grati, / ed al vecchio che incontro le si affanna, / porgo la mia pagnotta, la più bella. / Addio cucine, dove non mai stanchi / aspettavano un osso i miei soldati, / con occhi luccicanti; / quel gran ragù, cui vigilava - oh Dio! – / con baionetta in canna, / la sentinella.
Ma ch'io viva, ch'io giunga alla più stanca / vecchiezza, o in tanti morti un morto io sia, / Picco, di te non mi potrò scordare; / scorda forse chi amò l'anima mia? / Eri un uomo, il più degno eri d'affetto, / tu così lungo, così magro e nero, / che mettevi paura - oh, ma davvero! – / al fanciulletto. / E sei partito, senza me partito / sei per l'ignoto. / I soldati a vederci sempre insieme / -che son talvolta peggio di puttane- / cose strane dicevan, cose strane; / ch’io t’amassi, non so, come una donna, / o da te mi piacesse farmi fare, / s’ingannavano invece, a quanto pare, / l’amore ch’io ti portavo / era più singolare. / Piazza d'Armi ricordo, l'ufficiale / che dai ranghi ti trasse, e per mia gioia / (forse non disse male) / disse: «Il soldato Picco / è peggio d'una serva». / Chi la memoria di quel punto serba, / di te, del tuo rancore ancor sorride; / e meno ti vorrebbe esser lontano. / Nato a Lucca, così come l'ulivo, / come il fiasco del Chianti eri toscano. / E t'amavano tutti, anche una bimba, / la mia, che sempre ti diceva «Buto», / e alzava contro te l'esile mano; / quando: «È partito - le dissi - non torna»; / stette un poco fra sè, già lacrimosa / corse alla mamma, le si strinse accanto; / dette a terra in un pianto, / quel pianto, sai, lungo filato uguale.
Ampia canzone libera (leopardiana, per intenderci) composta di tre strofe di endecasillabi e settenari, con rari quinari e frequenti rime. Argomento esclusivo è la vita militare, che annulla ogni pensiero estraneo. Una mattina, nella caserma milanese, Saba trova la camerata vuota: due terzi del suo reggimento sono partiti per il fronte e anche lui attende la sua nuova destinazione, perché la vita del soldato è tutta nelle mani dei comandanti. Il distacco è doloroso, malgrado la difficoltà di rapporti con i compagni, che lo sentivano diverso e fuori dei ranghi. Nella poesia ogni tonalità intimistica ed evocativa è rifiutata, a favore di un discorso di forte incisività, ampiamente narrativo, che descrive situazioni, fatti, persone di immediata concretezza, con un lessico tutt'altro che letterario, che ritrae al vivo la realtà militare: la camerata, il grigioverde, il cannone, la pagnotta, “le cucine, dove non mai stanchi aspettavano un osso i miei soldati”, il “gran ragù” e così via. Concreto e terragno è anche il protagonista della canzone, il contadino toscano Picco, così “magro e nero” che impauriva i fanciulli, ma non la figlia del poeta, che piange alla sua partenza. E Picco “senza me partito...per l'ignoto” è fortemente presente con intenso rimpianto anche nel ricordo del poeta.
Nella lirica, riportata nella sua stesura originaria, figurano (in caratteri tondi) anche i versi da “I soldati a vederci sempre insieme” a “era più singolare”, che in realtà non vennero mai pubblicati ed anzi provocarono un piccolo scandalo. Saba aveva inviato il testo completo all'amico Meriano per la pubblicazione sulla rivista La Diana, ma la direttrice lo rifiutò perché offensivo della morale; Saba rifiutò ogni taglio ed esso uscì, con correzioni, sulla rivista La Brigata. Nel Canzoniere del 1921 tutto il passo venne soppresso. Non è certo questa la sede per trattare dell'eros di Saba, con i suoi complessi risvolti psicanalitici, legati anche all'assenza del padre e al duro carattere della madre, che lo lasciarono privo di affetti nell'infanzia. Saba si sposò nel 1909 e i rapporti con la moglie Carolina (Lina) furono spesso difficili, ma sostanzialmente tennero; molto belli poi quelli con la figlia Linuccia, che lo protesse contro ogni male reale e immaginario e divenne devota custode delle sue memorie. A lei Saba affidò, con il compito di bruciarlo, il manoscritto di Ernesto, a suo parere un “romanzetto” “scandaloso” e “impubblicabile” composto nel 1953, che tratta senza alcuna morbosità, con estrema grazia e delicatezza, ma anche assoluto realismo, l'esperienza omosessuale del giovane Ernesto, chiara controfigura del poeta. Naturalmente la figlia non bruciò nulla e il romanzo uscì postumo nel 1975, salutato da unanimi lodi della critica; esso sembra suggerire una disposizione più ad una “gaia scienza” e ad un'“innocente” sperimentazione che a quello che i manuali dell'Inquisizione e gli intolleranti di oggi chiamano “il vizio nefando”.
VITA DI GUARNIGIONE
(in Tutte le poesie, pp. 848-50)
Picco scrive dal fronte: / «Molto freddo, molti soldati, / molto rumore di cannonate». / Ed io son qui, sono a Casalmaggiore, / e ci devo restare; / devo ancora pensare / alla guerra: ci penso a lungo, e dico: / Aver forse paura e non fuggire, / saper uccidere, saper morire, / Dio sa quest'arte s'io l'apprenderò? / Vigilare ora devo sul nemico / che ad Ala, a Redipuglia, a Doberdò / i miei bravi compagni han disarmato / ne intendo i lagni, ne placo le beghe. / «Wie geht's Ihnen, Colleghe?» / la parola così mi fu rivolta / (un poco io ne sorrisi) da una faccia / che sorrideva entro la barba folta. / No, non son pago; no, una prova manca / alla mia vita, che non chiedon gli altri. / «Meglio che al fronte», ed ammiccano scaltri; / vita di guarnigione non li stanca / di poco onore, di nessuna pace. / Vino buono e a buon prezzo (a me dispiace), / belle ragazze, schive coi borghesi, / ma per noi militari, lungo il fiume, / o in qualunque osteria, molto cortesi; / molto invero disposte a far piacere / a Sancio Panza, che ha messo le piume / di bersagliere.
[...]
Faccio in arme dei versi, / per te li ho fatti, per una gentile / donna che aspetta: guarda il mio fucile, / non ha sparato ancora sui tedeschi; / ma il soldato va dove altri lo manda, / e deve il suo saluto a chi comanda. / Non può dire un soldato: «Mi fa freddo / sui monti; anche il nemico è un valoroso, / (non quanto noi); ma di più su non visto / fulmina, ed io non voglio morir qui». / E nemmeno può dire: «Meglio il freddo / d'alta montagna, anche un pensiero sì, / anche un pensiero di morte, che l'ore / -lunghe a Casalmaggiore – / con un nemico accanto a te senz'armi, / un che t'odia, e per farsi / perdonare ti fa il saluto al modo / dei nostri. Meglio che l'aspetto tristo / di Sancio Panza; e poi con lui di guardia / montar la sera, e portar zaino il giorno, / meglio prender con voi senza ritorno / la via di Trento; oh tu che là ti struggi / d'essere a casa, e non sei meno un prode / se tanto ti lamenti, e mai non fuggi!» / Tante cose non può dirle un soldato; / le pensa, e dura al posto che gli è dato. / Ma tu, che di volermi bene dici, / se del vero mio bene il tuo cuor gode; / non ch'io viva o ch'io muoia; altro, o mia Lina, / altro chiedi per me alla Madonnina.
E' il testo di maggior tenuta della serie con i suoi 89 versi, articolato in tre stanze di endecasillabi e settenari, delle quali ho riportato solo la prima e l'ultima. Prevalgono i versi lunghi ed anche questo contribuisce a dare alla canzone l'andamento di una poesia-racconto, dai toni prosastici e decisamente antilirici, quasi di cronaca in versi. Trovano in essa perfetto equilibrio l'animata rappresentazione per rapide scene della vita nel campo di prigionieri in cui Saba è costretto a servire, e l'analisi della propria condizione triste e umiliata ma sostenuta con coraggiosa fermezza. Infatti il tema dall'inizio alla fine è la stanchezza e la noia di una vita senza scopo, la frustrazione del poeta, che, mentre Picco e tenti altri al fronte soffrono, ma combattono da valorosi, è costretto a vivere una vita da Sancio Panza, “di poco onore e di nessuna pace”, senza poter mettere alla prova se stesso, la propria capacità di “saper uccidere, saper morire”. Eppure anche la vita di guarnigione, sebbene non abbia nulla di eroico e si consumi nel ritmo monotono e sospeso di un limbo, presenta momenti umanamente simpatici e gratificanti, come quando un prigioniero austriaco si rivolge a lui amichevolmente o quando la libera uscita permette ai soldati di abbandonarsi con allegra spensieratezza ai piaceri del buon vino e delle belle ragazze “molto cortesi” che popolano Casalmaggiore. Il toponimo torna ben due volte nella poesia, ora in assonanza: “sono a Casalmaggiore / e ci devo restare”, ora in rima: “l'ore / lunghe a Casalmaggiore”, e con il suo suono grevemente padano accentua il ritmo prosastico della canzone.
ACCOMPAGNANDO UN PRIGIONIERO
(in Tutte le poesie, p. 170)
La piazza del paese a mezzo il giorno
come una stampa, pur nuova, d'antico;
io che cammino di scorta a un nemico,
e i ragazzi, si sa, dietro e d’intorno.
Dal Caffè l'ozioso, esce dal forno
il panettiere, tra la piazza e il vico
lascia il suono, la man ritrae, il mendico.
Così all'andata, così nel ritorno.
Mi fa il saluto, io glielo rendo; e vedo
che gli occhi pone al deschetto e il pensiero,
su cui, come Hans Sachs, non canta, io credo;
vestito è un anno, armato a tanta offesa,
vecchio buon ciabattino, prigioniero
di guerra, foglia nel turbine presa.
Una nota del poeta in calce precisa la situazione: “Il prigioniero, un calzolaio, era stato da me accompagnato al paese per comperarvi gli utensili del suo mestiere”. All'amico Meriano egli dichiara: “Ho tanta simpatia per questo sonetto, che è la mia poesia più limpida e attuale”. E la simpatia rimase, tant'è vero che, unico del nostro “canzoniere”, sopravvisse fino all'edizione definitiva all'incontentabile pratica correttoria di Saba.
L'ambientazione è perfetta, ricca com'è di particolari limpidamente incisi, concretamente realistici e privi di ogni leziosità di “genere”. La loro esattezza non può sfuggire a chi conosce i luoghi: la vasta piazza in cui confluiscono le principale vie di Casalmaggiore, l'animazione dei caffè (sembra di vedere le “pantere grige” sedute al “Centrale” di oggi), delle botteghe, l'oziare della gente, il mendicante che suona e chiede l'elemosina, la curiosità dei ragazzi, tutto con il sapore di una stampa antica, completata dal finto gotico del palazzo municipale inaugurato da appena vent'anni.
Sobriamente oggettiva è anche la figura del ciabattino prigioniero, simpatica e viva nel saluto cameratesco che porge al poeta e per la serietà con cui si dedica al lavoro per lui abituale nella sua vita civile: non un ciabattino da melodramma, come l'Hans Sachs dei wagneriani Maestri cantori di Norimberga, ma persona buona e vera, con cui il poeta finisce per identificarsi: anche lui “vecchio”, cioè richiamato alle armi, anche lui “foglia nel turbine presa”. Il sonetto uscì nel 1916 e chissà se Ungaretti prese spunto da questa immagine per la sua celebre Soldati: “Si sta come / d'autunno / sugli alberi / le foglie.”, che è datata “luglio 1918”.
Seguono due poesie: “Il trombettiere della territoriale” (in Tutte le poesie, p. 908) e “L'invasore” (in Tutte le poesie, p. 910), che non riprendo, perché francamente le più deboli del gruppo.
SERA D'AUTUNNO
(in Tutte le poesie, p. 909)
Andando verso sera io lungo il fiume, / quasi soffro di ciò, di ricordare / mia madre, quando m'accendeva il lume.
Vado a trovare un amico, un soldato / come me, come me cresciuto al mare, / uno del - Quarto genio lagunare – /nato a Venezia e sul Po comandato.
Le ragazze gli piaccion, l'allegria: / molte ne tiene, ed una sola in cima / al mesto cuore: à di me qualche stima, / un gran dispregio per la fanteria.
Nel fiume, a rischiarar l'anima mesta, / dei mari l'aureo tremolio discerno. / Forse, mentre son qui, vano ed infermo / d'attesa, forse, la fanfara in testa,
sbarcano i bersaglieri a Salonicco: / mentre l'autunno nel mio cuore io sento, / lambe la neve già l'accampamento / a chi m'aspetta (ed altro scrive), a Picco.
Che fai lassù, compagno a noi diletto? / Dal basso a te più che non speri io penso: / «Picco - ti grido ancor - sei di picchetto! »
Ancora una poesia di “piccola cronaca”, tutta vera e situata in un paesaggio realissimo: il poeta cammina solo nel crepuscolo lungo la via alzaia dell'argine maestro per recarsi all'ospedale, posto al margine del paese, a trovare un amico veneziano, soldato del genio lagunare in servizio sul Po. Mentre procede nel silenzio della sera, davanti al tremolio d'acque del “grande fiume”, l'anima mesta è invasa da tristi pensieri: la madre, il suo mare, l'inutilità del suo vivere, mentre i compagni conquistano nuove terre, la lontananza di Picco, “compagno a noi diletto”.
Particolarmente raffinata la struttura metrica: due strofe, ciascuna di 11 endecasillabi, distinte la prima in una terzina e due quartine, la seconda in due quartine e una terzina; anche il sistema delle rime (o assonanze) è speculare e invito gli amanti del genere a ritrovarlo.
PARTENDO PER LA ZONA DI GUERRA
(in Tutte le poesie, p. 851)
Addio Casalmaggiore,
città dell'allegria-;
la terza compagnia
canta, in riga per là dove si muore.
Le donne alle finestre ed i bambini
guardan con occhi di pianto per via
passar sotto allo zaino i fantaccini.
Canta l'anima mia;
canta: Domani a sera
forse saremo al fuoco.
Se fosse tutto un gioco
di bambini, una cosa appena vera?
La poesia si snoda rapida in tre quartine: la prima in tre settenari e un endecasillabo a rime incrociate, la seconda di tre endecasillabi e un settenario a rime alternate, la terza ripete lo schema della prima. Il ritmo veloce dei settenari domina la lirica, che suona alta come uno squillo di fanfara, come un grido di liberazione. La noia e la tristezza dei mesi passati sono dimenticate e nell'eccitazione del momento (ma forse anche per necessità di rima) Casalmaggiore è trasfigurata in “città dell'allegria”, mentre la compagnia sfila cantando per le vie della città, salutata dallo sguardo mesto e curioso delle donne e dei bambini. L'anima del poeta canta e non riesce quasi a credere alla propria felicità (che infatti rimarrà delusa).
Si concluse così l'esperienza di Umberto Saba a Casalmaggiore e non si hanno notizie di successivi ritorni. Eppure il breve periodo qui trascorso segnò per il poeta un momento importante di chiarificazione ideale e intellettuale, di sperimentazione tesa al riconoscimento della propria poetica più autentica: essere se stesso e insieme il poeta della vita scoperta nella sua essenza e nei valori comuni a tutti, nel “desiderio dolce / e vano / d'immettere la mia dentro la calda / vita di tutti, / d'essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni” (da Il Borgo, in Tutte le poesie, p. 325).