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I mulini natanti a Casalmaggiore


Lungo gli argini del Po oggi si va per compiere romantiche e salutari passeggiate, contemplare albe e tramonti, ammirare vasti paesaggi d'acque e di boschi che spaziano fino all'azzurro dell'Appennino parmense. Ma in passato il Po era ben altro, era il centro delle principali attività economiche, delle manifatture, dei traffici, dei commerci, dei navigli che scaricavano e caricavano le loro merci, del vario andirivieni della gente che viveva dei prodotti del fiume: barcaioli, carrettieri, pescatori, manovali...Dalla nostra sponda partivano pure i barconi del “porto”, cioè del servizio di trasbordo di uomini e merci verso la sponda parmigiana, che funzionò fino al 1863, quando venne costruito il ponte in chiatte a pedaggio, che mise in stabile comunicazione le due rive.
Fin dal Medioevo il Po era stato la principale via di comunicazione e di commercio, la più facile e sicura, per tutta la vasta regione padana. Imbarcazioni d'ogni tipo e stazza percorrevano il fiume, trasportando tutte le merci, dalle più pregiate, come il sale e le spezie, al vino, ai cereali, al legname, alla sabbia, e compiendo lunghi percorsi, da Venezia e dal delta almeno fino a Pavia. In discesa la corrente aiutava e bastava la forza dei remi e del vento, insieme all'abilità dell'esperto navarolo al timone; in risalita nei tratti più difficili si ricorreva ai cavalli e agli uomini, che, procedendo per la via alzaia a fianco degli argini, trainavano faticosamente i pesanti barconi.
La navigazione incontrava tuttavia anche enormi problemi, in parte dovuti alla natura (bassi fondali, regime irregolare delle acque, frequenti spostamenti del “filone”, cioè della corrente principale...), in parte agli uomini (i confini tra gli Stati, che obbligavano a lunghe soste e magari a trasbordi, gli innumerevoli dazi, che ritardavano e aggravavano i traffici...). Napoleone nel 1806 eliminò d'un colpo tutte le barriere doganali e tutti i dazi, stabilendo la libera navigazione, ma questi risorsero con la Restaurazione e solo nel 1849 vennero definitivamente aboliti. Tra il 1820 e il 1860 l'avvento delle navi a vapore illuse il governo austriaco, ma anche grandi esperti come Carlo Cattaneo e l'ingegnere idraulico Elia Lombardini, che il Po potesse diventare, se opportunamente attrezzato, la grande via dei trasporti e dei commerci per tutta l'area padana e addirittura per le comunicazioni con la Mitteleuropa. Molte opere ed esperimenti in questa direzione vennero compiuti, ma ci si dovette arrendere di fronte all'irresistibile affermarsi dei nuovi mezzi di comunicazione: la strada e, soprattutto, la ferrovia. Infatti Napoleone e i governi austriaci nel '700 e '800 avevano grandemente esteso e migliorato la rete stradale, anche per ragioni militari, e dagli anni '30 la strada ferrata rivoluzionò tutto il sistema dei trasporti. Per concludere questo rapido excursus, ricorderò con Giorgio Bigatti, forse il più autorevole studioso di questi problemi, un solo dato: ancora nel 1830 un barcone per risalire il Po dalla foce a Pavia impiegava, secondo la stagione, dai 30 ai 40 giorni, mentre il percorso per via di terra con i convogli di pesanti carri richiedeva circa 11-14 giorni e il tratto Venezia-Milano, quando dal 1857 venne aperta l'intera linea ferroviaria, divenne percorribile in 9 ore.
Malgrado taluni continuassero a difendere il trasporto fluviale perchè ritenuto più economico per le merci più pesanti, la concorrenza divenne impari e segnò praticamente la fine della storia secolare della navigazione padana. Il destino dell'odierno canale Milano-Cremona-Po miseramente arenatosi in quel di Pizzighettone, per non parlare del desolante spettacolo che offre la banchina del porto di Casalmaggiore, ne è la dimostrazione e il triste, fin troppo eloquente simbolo.
 
Una sorte per molti aspetti simile è toccata ai mulini ad acqua o mulini natanti o, secondo l'antica denominazione, mulini da sandone, ora scomparsi, ma che per secoli caratterizzarono con la loro fitta presenza il paesaggio padano e svolsero un ruolo essenziale per l'alimentazione e la vita economica di tutta la popolazione. Ormeggiati a riva con grosse funi e catene (“appiardati”, come si diceva nel gergo dei molinari, che noi useremo con parsimonia, ma dotato di un lessico ricchissimo e molto espressivo), o ancorati al fondo del fiume, nel tratto dove la corrente era più profonda e scorreva più veloce, mediante le “burghe” (grossi cestoni di vimini o ferro riempiti di sassi), i mulini facevano muovere il loro impianto di macinazione grazie alla forza motrice dell'acqua, da sempre l'energia meccanica più disponibile e meno costosa. Date le grandi variazioni stagionali del regime fluviale, i mulini non erano fissi, ma natanti, costretti a frequenti spostamenti lungo la sponda o anche da una sponda all'altra.
I mulini erano macchine tecnologicamente assai complesse, perchè i meccanismi di base, di per sé elementari, erano stati nel tempo continuamente migliorati e affinati dall'ingegnosità e dall'esperienza dei molinari e soprattutto degli abilissimi costruttori di imbarcazioni, i “calafati” (nel dialetto “galafàss”), una categoria stimatissima dalla gente di fiume per la sua alta specializzazione e oggi quasi completamente estinta. A parte le macine, che erano in pietra, la struttura e gli ingranaggi dei mulini erano interamente in legno di quercia, di rovere, di noce, i più resistenti all'acqua, agli urti e al forte attrito cui erano sottoposti nel loro perpetuo lavoro. Essi erano costituiti da due zattere galleggianti (i “sandoni”) con la chiglia piatta, le pareti e la poppa quasi verticali e la prua rialzata, collegati tra loro da un largo ponte (“andiale”) e da diverse assi (“catene”). A poppa era situata la ruota a pale, montata su una trave orizzontale (il “fuso”), che, girando in senso antiorario, trasmetteva il movimento a una serie di ruote dentate, che facevano girare la macina, formata da una parte inferiore fissa e da una superiore rotante, da cui venivano immesse le granaglie, trasformate in farina dallo sfregamento. Normalmente le macine messe in moto dallo stesso meccanismo erano due, una per la molitura del frumento e una per il mais e gli altri cereali. Il tipo di mulino più diffuso dalle nostre parti era la cosiddetta “mulinella”, in cui il “sandone” che portava l'impianto di macinazione (il “palmento”) era circa un metro più lungo dell'altro, che invece era adibito ad abitazione, quanto mai rudimentale, del molinaro, a magazzino dei sacchi di grano e ad officina per le frequenti riparazioni che occorrevano. L'altro tipo, a doppio palmento, uno per ogni “sandone”, era chiamato “mulinassa”. I mulini erano macchine imponenti per la loro stazza e misuravano di lunghezza 12-13 metri e di larghezza intorno agli 11-12 metri. Anche la forza-lavoro dei mulini dipendeva dalla velocità della corrente: nei periodi di magra la ruota andava lenta e in una giornata si macinavano uno-due sacchi, mentre nei periodi più favorevoli si raggiungevano i cinque-sei sacchi (il sacco era una misura cremonese di capacità, corrispondente, in base al Manuale di metrologia del Martini, a circa kg. 71,200).
Il mugnaio conduceva un'esistenza assai grama, molto faticosa, solitaria, piena di rischi e di imprevisti. Egli lavorava a pieno ritmo tutto il giorno e in tutte le stagioni, non poteva mai abbandonare il mulino né giorno né notte, per controllare il buon funzionamento dell'impianto, evitare gli incidenti sempre in agguato (periodi di piena o di magra, tronchi trascinati dalla corrente, collisione con altre imbarcazioni...), impedire l'assalto di ladri e malfattori al tesoro di farina ch'egli custodiva; senza parlare del disagio derivante dal tremendo, incessante rumore, dai cigolii, dalle vibrazioni prodotti dalle ruote e dai meccanismi.
In più i molinari usavano chiamare il loro mulino col nome di un santo e veneravano come loro patrona Santa Caterina “della ruota”, ma non esisteva forse categoria più malfamata, guardata dalla popolazione con odio e sospetto, come una manica di imbroglioni e di sfruttatori. Già la gente di fiume posta sui confini era malvista (“paese di confini, o ladri o assassini”, diceva un proverbio lombardo), ma il mugnaio era spesso accusato d'ogni nefandezza, come testimoniavano anche i proverbi: Il mugnaio tira sempre l'acqua al suo mulino; Si cambia il mulino, ma non il mulinaro; Chi cambia mulino, cambia ladro; Al mugnaio ingordo si secca il gozzo...e così via. I mugnai avevano diritto di trattenere per il loro lavoro 1/6 del grano (la “molenda”) e si ammetteva che una certa parte della farina andasse perduta durante la molitura (la “volatìa), ma senza numero erano le frodi di cui clienti ed autorità li ritenevano capaci: si diceva che mescolassero la crusca alla farina, che la bagnassero per appesantirla, che aggiungessero della calcina o della sabbia, che sfuggissero al pagamento dei dazi, che favorissero il contrabbando...
A compenso dei tanti sacrifici e delle tante accuse, i mugnai potevano rallegrarsi per i lauti guadagni che ritraevano dalla loro attività e infatti essi formavano quasi una casta chiusa, cercavano quanto prima di condurre i figli sul mulino per insegnare loro i segreti di un mestiere che richiedeva un'alta specializzazione e se lo trasmettevano poi di generazione in generazione.
Che attorno ai mulini si coagulasse un forte giro di affari e di interessi e si formassero perfino società a delinquere di stampo, diremmo oggi, mafioso, lo dimostra anche un oscuro episodio cui accenna il nostro storico Romani (vol. VI, pp. 63-64) e che val la pena rievocare. Egli narra dunque che nel 1710 alcuni potenti personaggi rimasti ignoti formarono nel Casalasco una vera e propria “cupola” per imporre il loro monopolio sulla macinazione dei grani e sui cospicui proventi che ne derivavano. Essi presero in affitto quanti più mulini poterono e li subaffittarono a loro complici; quindi spedirono dei bravacci a minacciare tutti gli altri mugnai perchè si guardassero bene dal ritirare grani dai privati e questi fossero quindi costretti a servirsi solo presso quelli a loro legati, passando anche a violenze e bastonature contro chi protestava. Per fortuna il governatore di Milano, su richiesta della Comunità, intervenne subito a vietare severamente il subappalto dei mulini e a ordinare che ciascuno potesse rivolgersi a quello che preferiva nell'ambito del distretto.
Lungo la piarda casalasca da Agoiolo a Roncadello è attestata fin dal Medioevo la presenza di un considerevole numero di mulini ad acqua ed anche negli Statuti di Casalmaggiore, redatti nel 1424, sono contenute ben quattro rubriche che ad essi si riferiscono (cito dalle pp. 138-140 dell'edizione di Milano 1717). Nella prima (Rubrica de Mulinariis) si precisano minuziosamente le procedure che questi devono seguire per il ritiro e la restituzione dei grani e per la molitura, e il loro compenso legale; la seconda dispone che i padroni dei mulini situati “in flumine Padi” si impegnino davanti al podestà a rispettare le regole e a non esportare grano di contrabbando fuori del distretto; le altre due mirano a garantire i cittadini contro le più frequenti frodi dei mugnai: chi ritiene che gli sia stata restituita una quantità di grano inferiore al dovuto, deve denunciarlo all'ufficiale dell'Annona entro 30 giorni; i sacchi di grano non devono mai essere tenuti sul pavimento dove si inumidiscono, ma su assi soprelevate che li conservino ben asciutti.
Tralasciando altri, più complessi documenti, vorrei qui soffermarmi su una “Notta delli molini si trovano nel fiume Po col nome cogniome de' Padroni e Fitabili” compilata nel 1723 (ASCC, cart. 37, 3/1; l'ortografia non doveva essere la virtù migliore dello scrivano), in cui sono elencati ben 15 mulini operanti nel distretto (ma di due si precisa “non più in queste aque”, perchè trasferiti altrove). La nota è significativa anche perchè distingue chiaramente i proprietari dagli affittuari. Infatti il mulino era un vero e proprio impianto industriale di notevole valore, la cui costruzione richiedeva un forte investimento in denaro, sostenibile solo dai più benestanti. Proprietari quindi risultano alcuni dei nomi più prestigiosi del patriziato e del decurionato casalasco, che evidentemente avevano considerato produttivo e remunerativo tale impiego del loro capitale. Notiamo tra essi: i fratelli Ponzoni, il conte Eleonoro Magnoni, Tommaso Tarozzi, il cavaliere Niccolò Lodi, il marchese Giulio Vaini, il marchese Antonio Maria Araldi, Flaminio Busi, Stefano Negri. Tali personaggi non gestivano direttamente il loro mulino, ma lo affittavano a uno o più conduttori, che in tutto risultano 43. Non è specificato cosa significhi l'annotazione “sachi n....” posta accanto a ciascun mulino, ma penso che indichi o il canone dell'affitto annuo valutato in sacchi di frumento da pagare al proprietario o l'entità del “palatico”, cioè del dazio che ogni mulino era tenuto a versare annualmente alla Camera in quanto fruiva delle acque di un fiume, considerato un bene pubblico dello Stato. Il documento riflette la situazione esistente nel periodo d'oro dei mulini, che appartenevano quindi alla più elevata classe sociale del paese, stretta in alleanza d'interessi a un numeroso ceto di molinari.
Interessante è porre a confronto questo documento con un altro della Parte Moderna dell'Archivio, datato 29 settembre 1849, che attesta invece un'avanzata fase di declino dei mulini natanti, tipica, come diremo, del XIX secolo: i mugnai casalaschi risultano in tutto solo 6 e i mulini 5 (dato che uno è in società), appartengono a un basso ceto sociale, tant'è vero che risiedono tutti nelle frazioni e si sottoscrivono con una croce, non c'è più traccia di potenti investitori, che evidentemente hanno spostato altrove i loro capitali, e il Comune li convoca per una “diffidazione”, che in termini molto spicci vieta loro di assicurare i mulini “con funi e catene” all'argine maestro e alla riva, perchè ciò reca danno alla navigazione.
L'ultima ora, triste ma inevitabile come per tutte le cose che hanno un loro termine, giunse per i mulini ad acqua nel corso dell'Ottocento, quando con la rivoluzione industriale si affermarono i mulini a vapore, assai più potenti, efficienti e sicuri. I navaroli poi, come già accennato, avevano sempre considerato i mulini una grave insidia e ostacolo alla navigazione e le nuove speranze suscitate dal trasporto fluviale a vapore portarono a vedere ancor più nei mulini degli impianti ingombranti e obsoleti, da eliminare. Già nel 1835 il governo del Lombardo-Veneto emanò un decreto che vietava la costruzione di nuovi mulini sia natanti che fermi sulla sponda dei fiumi, e iniziò un lungo braccio di ferro tra i governi, decisi a farli gradualmente scomparire per esaurimento man mano che divenivano inutilizzabili, e i molinari, attaccati più che mai al loro tradizionale mestiere e ai loro guadagni, decisi a opporre una tenace resistenza. Un'indagine statistica della Commissione per la navigazione interna promossa dal Ministero dei Lavori Pubblici rilevò nel 1902 che lungo l'asta del Po esistevano ancora 266 mulini ad acqua, situati in gran parte (213) nelle province di Mantova, Ferrara e Rovigo, mentre la provincia di Cremona ne aveva solo 13 e quella di Piacenza 1. Nel 1930 non esisteva più nessun mulino funzionante e i pochi rimasti erano ormai reperti di archeologia industriale.
Luigi Lugaresi, lo studioso che meglio ha approfondito questi temi con coscienza di storico, senza abbandoni nostalgici e patetici rimpianti del tempo che fu, e dal quale ho anch'io ripreso molte notizie, afferma che l'ultimo mulino ancora galleggiante sul Po venne affondato a Bergantino (Rovigo) da un bombardamento aereo degli Alleati. Era il 2 gennaio 1945.

Archivio Storico Comunale di Casalmaggiore, b. 37, f. 3/1
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Pubblicato su "Casalmaggiore", bimestrale a cura
dell'Associazione Pro Loco di Casalmaggiore
Marzo 2010

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