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La tassa più odiata dai Casalaschi: il dazio della macina


Una delle voci più consistenti dei bilanci della Comunità di Casalmaggiore fu sempre il dazio della macina, l'imposta che doveva essere versata da chiunque portasse il frumento o altro cereale a macinare presso uno dei vari mulini natanti che stazionavano nelle acque del Po. Esso non rappresentava il compenso spettante al mulinaro per il suo lavoro, poiché questi si faceva pagare in natura, trattenendo una certa quantità della farina macinata, bensì un prelievo stabilito dal Comune a totale beneficio delle sue casse sempre stremate. Era la più importante delle imposte indirette, la più odiosa e impopolare, perchè colpiva pesantemente un genere di consumo primario nell'alimentazione della popolazione e specialmente dei ceti più poveri e toccava tutti in egual misura, senza alcun criterio di proporzionalità, ma venne sempre mantenuta perchè presentava anche molti vantaggi: era di facile esazione, riguardava una larghissima fascia di contribuenti e lasciava scarso spazio all'evasione. Per questo in tutti gli Stati di antico regime venne applicato tale tributo duro e iniquo ma efficace per assicurarsi rilevanti entrate, e in particolari momenti di emergenza si è fatto ricorso ad esso anche in tempi più recenti: basti pensare alla famosa tassa del macinato che Quintino Sella impose nel 1869 per ripianare il deficit, provocando violenti moti di rivolta popolare sanguinosamente repressi.
Il tributo sulla macinazione era in origine una “regalìa”, cioè apparteneva di diritto al sovrano, ma poi, in epoca imprecisata, di cui, come vedremo, si perse la sicura conoscenza, Casalmaggiore, come molti altri Comuni, riuscì a farselo concedere e per parecchi secoli potè gestirlo autonomamente con grande accortezza ed efficacia di risultati, almeno dal punto di vista della classe dirigente che l'amministrava.
La documentazione, piuttosto copiosa, relativa alla macina che si conserva nel nostro Archivio Comunale è contenuta in particolare nella cartella 9 della parte antica, dalla quale ho tratto tutte le notizie utilizzate in questo mio studio.
Dunque nel nostro Comune il dazio si applicava su ogni quantità di grani nel momento in cui venivano trasformati in farina: per un sacco di frumento, una misura di capacità di tre staia, corrispondente a quasi 107 litri e a circa 80 chili, si dovevano versare 30 soldi; per un sacco di qualunque altro cereale (si citano melega, cioè il mais, segale, miglio, avena, orzo, farro, veccia, spelta, che servivano per la panificazione e il nutrimento dei poveri) si pagavano 15 soldi.
La procedura, più volte ricordata nelle gride periodicamente, e vanamente, rinnovate per evitare irregolarità e frodi, era particolarmente lunga e macchinosa. Era vietato assolutamente recarsi a macinare i grani fuori dal territorio comunale o servirsi di un mulino non autorizzato; era vietato comprare farina o pane forestiero da parte dei privati e dei fornai, che erano pochi e tutti con bottega nel capoluogo, per meglio controllare che usassero farina daziata. Il mulinaro che riceveva il grano da macinare doveva immediatamente portarlo all'Ufficio della Macina, posto in un locale comunale al termine dell'attuale via Mentana, dove veniva pesato, veniva pagato il relativo dazio e veniva rilasciato un bollettino di ricevuta, che da quel momento doveva sempre accompagnare il sacco; infine dopo la molitura il mugnaio lo riportava all'Ufficio per verificare che la farina corrispondesse al grano prima pesato e l'operazione era finalmente conclusa.
Malgrado la minuziosità delle regole e le gravissime pene, fino alla forca, minacciate ai contravventori, bisogna dire che in una terra come Casalmaggiore posta ai confini con vari altri Stati (i ducati di Parma, di Mantova e di Modena) il contrabbando era assai diffuso e chi portava grano a macinare all'estero, dove i costi erano minori, aveva alte probabilità di non essere scoperto.
La riscossione del dazio non era direttamente gestita dal Comune, bensì affidata a un appaltatore mediante pubblico incanto della durata di un anno, dal 1 luglio al 30 giugno, e il vincitore, che ovviamente era colui che assicurava al Comune il maggior introito, doveva fornire garanzie di solvibilità e versare nelle casse civiche ogni 15 giorni 1/24 della somma pattuita.

Per capire la funzione svolta nei secoli dal dazio della macina, dobbiamo inserirlo nel quadro complessivo della tassazione comunale, di cui mi sono già occupato estesamente in un precedente articolo, ma che devo qui richiamare per quanto necessario. Le entrate della Comunità di Casalmaggiore erano suddivise in due fondamentali comparti: il “reale”, che gravava sui beni fondiari in proporzione del loro valore catastale e doveva coprire i 2/3 dei tributi, e il “personale”, che colpiva in misura uguale tutti gli abitanti maschi in età lavorativa (nel '500 e '600 dai 14 ai 70 anni, poi limitato dai 18 ai 60 anni), lasciando esenti solo gli inabili e impotenti, e che doveva fornire 1/3 dei proventi. Il “reale”, già di per sé contenuto (non più dell'8-10% del valore) e, almeno fino al più equo e realistico catasto teresiano del 1760, imposto su misure e valutazioni dei terreni assai favorevoli ai proprietari, non presentò mai problemi di riscossione, mentre per il “personale” sorgevano sempre difficoltà, perchè molti, non potendo o volendo pagare, cercavano di sfuggire e si doveva intervenire con la forza, creando spiacevoli situazioni. D'altra parte, visto che in ogni modo occorreva raccogliere la somma fissata dallo Stato, se si abbassava il “personale”, bisognava accrescere in pari misura il “reale”, a danno dei “predialisti” che dominavano nel Consiglio comunale.
La soluzione migliore parve quella di tenere basso il prelievo vero e proprio sulle persone e far rientrare nel “personale” un robusto dazio della macina, che tutti pagavano automaticamente ogni volta che andavano al mulino per avere la farina o si recavano dal fornaio a comprare il pane. Il “testatico” sulle persone a metà '700 era dunque di lire 15 annue sui possessori di immobili e di lire 7 per i non possidenti, mentre le tariffe su ogni sacco di grani erano quelle assai gravose sopra riportate. Il dazio della macina figura perciò in tutti i bilanci comunali con un peso pressoché doppio, e spesso superiore, rispetto al “testatico”: ad esempio, nel 1718 il primo era iscritto a bilancio per L. 31.959, il secondo per L. 17.353; nel 1747 la macina per L. 35.859, l'altro per L. 16.800.
Motivo di forte protesta da parte degli strati più miseri erano anche i criteri di assegnazione del tributo, perchè molti ceti privilegiati godevano di una totale esenzione e facevano macinare gratis i loro grani. I capitolati d'appalto elencavano accuratamente questi “fortunati”: la Comunità, tutti gli ecclesiastici secolari e regolari, le monache di Santa Chiara, le confraternite che reggevano l'ospedale e i due orfanotrofi, i dottori di legge e di medicina.
Per questi ultimi si trattava di un antico privilegio, mentre il clero godeva di ampie immunità fiscali e le difendeva gelosamente, poiché in campo economico, come pure in quello giudiziario, si considerava separato dallo Stato e faceva capo solo alla Santa Sede, e per quanto riguardava il Comune e le confraternite l'esenzione era giustificata dal fatto che questi enti utilizzavano il grano per la distribuzione di elemosine ai più bisognosi e per mantenere i luoghi pii. Il popolo malfidente sospettava però che tali esenzioni venissero indebitamente allargate a favore dei consiglieri e dei dipendenti comunali, dei reggenti delle confraternite e dei familiari del clero secolare, appartenente in genere alle più facoltose casate del territorio.
Il problema del dazio della macina si aggravò nel 1754, quando Casalmaggiore ricevette da Maria Teresa il titolo di “città” e gli abitanti del capoluogo, come tutti i cittadini dello Stato, furono esentati dal pagamento del “testatico”, cui rimasero soggetti solo i “forensi”, gli abitanti delle Ville.
Questi, che da sempre si sentivano oppressi e angariati dai “civili” casalaschi, levarono al cielo le loro proteste, minacciando, come sempre facevano quando il conflitto raggiungeva il culmine, di abbandonare il territorio, lasciando i campi desolati e privi di manodopera, un rischio a cui i possidenti erano molto sensibili e che già altre volte li aveva indotti a cercare un accordo.
Inoltre i contadini denunciavano vibratamente di essere sottoposti, esempio unico in tutto lo Stato di Milano, a due imposizioni sul “personale”, il “testatico” e la macina.

Il documento che qui viene in parte riprodotto, non datato, ma del 1764, mostra chiaramente che la situazione si era fatta drammatica e c'era il pericolo che sfuggisse di mano. E' la stessa Comunità che scrive al Magistrato milanese delle entrate ordinarie che “si sono talmente avanzati li clamori e doglianze del Popolo forense...per il dupplicato carico della macina e della testa al quale soggiace” che occorre provvedere ed alleviare i carichi divenuti insostenibili. “Su l'idea -si legge- di essere senza esempio sovracaricati, si resero li Contadini a tal segno animosi che, per sottrarsi al carico della macina di ragione di quel Pubblico (del Comune) da loro creduto insoportabile ed ingiusto, vanno con tutta franchigia a macinare li grani in Parti estere ed in tal modo si esimono di propria autorità dal pagamento”.
Il governo austriaco decise prontamente di intervenire e di venire incontro alle richieste del contado, come proposto dallo stesso consiglio: il ministro plenipotenziario conte di Firmian, con lettera del 21 giugno 1764, dispose che dal 1765 per i soli abitanti delle Ville il personale sulle teste fosse ridotto della metà, da 7 a 3 lire e mezza, e la macina di 1/3, cioè da 30 a 20 soldi per il sacco di frumento e da 15 a 10 soldi per le altre granaglie, ferme restando le tariffe consuete per i cittadini, che però non pagavano la “capitazione”.
I “villani” ottennero quindi giustizia, anche se sorsero altri problemi: si favorì, com'era naturale nel nostro piccolo territorio, il contrabbando interno, in quanto, per pagare la tariffa ridotta, si dichiaravano delle Ville grani che invece si consumavano in città, e soprattutto si dovette riversare sull'imposta “reale” dei terreni un aumento di ben 18.000 lire, a compensare il minor introito, per cui ora erano i proprietari a lamentarsi.
In realtà quella del 1764 fu una soluzione transitoria, perchè l'intenzione del governo austriaco era quella di riordinare tutta l'amministrazione delle Comunità, sottoponendole tutte ad una normativa uniforme e dettata dallo Stato ed eliminando anomalie e particolarismi. A tal fine era fondamentale che questo recuperasse le entrate, come quella della macina, cedute in passato ai Comuni e perciò il 26 gennaio 1768 Milano chiese al nostro consiglio di presentare il titolo comprovante il legittimo possesso del dazio della macina; il 18 luglio 1768 si rispose che il Comune lo possedeva da secoli, almeno dal '400, come attestavano i capitoli di dedizione concessi da Venezia nel novembre 1500, anche se era andato smarrito il documento originario. Lo scambio di missive andò avanti per qualche tempo tra i decurioni abituati da sempre a regolare la tassazione a proprio arbitrio e che cercavano di difendere i privilegi del passato, e il governo cui la questione importava non per un vano puntiglio giuridico, ma perchè era ben deciso ad affermare la propria sovranità e a realizzare un fisco più certo e più equo.
Ormai si procedeva velocemente verso la formazione di uno Stato moderno e la conclusione fu che la Camera Regia, appena ebbe i mezzi disponibili, deliberò nel 1778 di versare al Comune una somma di denaro per la “redenzione”, cioè il recupero alle proprie competenze, del tributo. Anche Casalmaggiore dovette così accettare l'integrale applicazione della nuova legge del censo, che traeva da terreni e fabbricati la massima parte delle risorse, e l'odioso dazio della macina rimase per sempre abolito.

Archivio Storico Comunale di Casalmaggiore,
cart. 9, fasc. 23/11
Mobirise
Pubblicato su "Casalmaggiore", bimestrale a cura
dell'Associazione Pro Loco di Casalmaggiore
Febbraio 2010

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