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Come la Lombardia divenne uno Stato moderno: il catasto teresiano


Nel precedente articolo mi ero fermato alla vigilia del grande evento, che ora, conosciute le premesse, possiamo direttamente affrontare: il nuovo censimento voluto dall'imperatore Carlo VI e dal governo asburgico, succeduto in Lombardia a quello spagnolo fin dal 1706, e avviato, dopo altri precedenti tentativi, nel 1718.
Già da tempo si erano levate denunce e proteste contro la pressione fiscale che gravava in modo insostenibile sopra i contribuenti ed appariva tanto più odiosa per la confusa congerie delle norme, l'iniquità della ripartizione, gli infiniti arbitri, evasioni, esenzioni a cui dava luogo favorendo le classi possidenti e cittadine, che riuscivano a manovrarla secondo i loro interessi. L'imposizione della “diaria” per il mantenimento dell'esercito, ancora più gravosa del “mensuale”, accese ancor più i contrasti e i governanti si resero ben conto che, continuando a servirsi di uno strumento obsoleto e macchinoso come il catasto cinquecentesco di Carlo V, lo Stato sarebbe precipitato verso una crescente spirale del debito pubblico e la catastrofe finanziaria. La Lombardia aveva grandi potenzialità economiche, ma si stava impoverendo sempre più e per risalire la china era indifferibile una profonda svolta nella politica tributaria, una riforma radicale che riuscisse a realizzare due obiettivi necessari e apparentemente contrastanti, ma che invece si riuscì a conciliare: accrescere le entrate dello Stato e ridurre i carichi dei cittadini, distribuendoli secondo criteri certi, razionali, uniformi e il più possibile equi.
Il 7 settembre 1718 venne quindi istituita in Milano la Giunta del Censimento con tre precisi compiti da attuare in fasi successive e di crescente difficoltà: raccogliere dai proprietari una fedele ed esatta notificazione dei beni immobili, effettuare un'integrale e diretta misurazione di essi, determinare il loro valore capitale.
Il semplice insediamento della Giunta suscitò sospetti e ostilità nei ceti privilegiati, specie milanesi, che si sentivano minacciati, per cui l'ordine emanato nell'aprile 1719 di notificare i beni entro 40 giorni incontrò resistenze accanite e il termine, in verità troppo ottimistico, slittò più volte. A fine 1720 tuttavia l'obiettivo venne raggiunto, anche grazie alla fermezza e rigore del presidente della Giunta, il napoletano Vincenzo De Miro. Per inciso, possiamo subito notare che i più convinti e decisi promotori della riforma, oltre al De Miro, furono il siciliano Francesco d'Aguirre, il toscano Pompeo Neri, il friulano conte Carlo di Firmian e altri che le autorità austriache chiamarono a collaborare da tutte le regioni, mentre i milanesi, legati alle tradizioni grettamente corporative e ai loro interessi economici e di potere, tesero sempre a porre freni e ostacoli e solo a partire dagli anni '60 si impose il grande illuminismo lombardo.
Il secondo intervento riguardò la misurazione dei terreni, attuata tra il 1721 e il 1724 (a Casalmaggiore si svolse nel giugno 1723): squadre di tecnici competenti e ben organizzati vennero inviati nei vari territori a compiere accurati rilievi, per i quali poterono valersi di uno strumento mai sperimentato in Lombardia, la famosa tavoletta pretoriana messa a punto dall'udinese Giovanni Giacomo Marinoni, matematico di corte a Vienna, che consentiva rapidità e precisione nelle misure. I dati delle rilevazioni, che riguardavano non solo l'estensione, ma anche la natura dei terreni e le colture praticate, venivano immediatamente trasferiti sulle minuziose mappe che riproducevano in scala ogni particella catastale e la designavano con un numero progressivo; poi i singoli lotti venivano elencati con un numero corrispondente sui cosiddetti “sommarioni”, i registri che li descrivevano con la superficie, le loro caratteristiche pedologiche, il nome del proprietario o affittuario. Ciò permetteva di identificare perfettamente le proprietà e di ottenere un facile riscontro cartografico, evitando l'errore di descrizioni generiche e senza mappe che aveva compromesso da subito il catasto di Carlo V. Il lavoro venne condotto con rapidità e straordinaria perizia, come testimoniano quelle tavole catastali che ancor oggi ammiriamo come veri capolavori di tecnica e di eleganza grafica.
Nel frattempo era iniziata anche la terza e più delicata fase del censimento, la stima del valore capitale di ogni particella, in base al quale si sarebbe stabilito il valore impositivo. Vennero raccolti a tal fine tutti gli elementi utili: i prezzi di compravendita dei terreni, la quantità e qualità dei prodotti, il loro prezzo nella zona, le forme e il valore degli affitti...; vennero assunte pure informazioni sul sistema fiscale delle singole Comunità (ciascuna aveva le sue particolarità, che lo Stato ignorava), come quella richiesta a Casalmaggiore nel 1723 e da noi esaminata nel precedente articolo.
A questo punto, conclusa la raccolta dei dati, si dovettero affrontare alcuni nodi politici, dai quali dipendeva l'applicazione e l'efficacia del censimento. Il più rilevante riguardava lo stesso rapporto tra lo Stato e i corpi territoriali: si doveva continuare nell'antico sistema per cui lo Stato si limitava ad assegnare una quota censuaria alle singole province, lasciando poi che esse procedessero senza alcun controllo alla successiva ripartizione dei carichi tra le Comunità del loro contado e queste a loro volta tra i singoli contribuenti, con tutte le sperequazioni che, come vedemmo, ne derivavano; oppure occorreva che lo Stato non si preoccupasse solo di incamerare tributi, senza badare a come ciò avveniva, ma intervenisse a dettare norme generali e comuni e a tutelare che tutto avvenisse secondo giustizia e rispettando i diritti dei cittadini?
La Giunta si orientò decisamente verso il criterio di eliminare abusi ed arbitri, parificando tutti i cittadini di fronte allo Stato in materia fiscale e stabilendo una tassazione identica per tutti i terreni, proporzionale solo al loro valore imponibile e al reddito che producevano: le Comunità non dovevano decidere con criteri particolaristici, ma applicare la legge generale. Ma per far questo si apriva un altro fronte di eccezionale rilievo e difficoltà: la riforma delle amministrazioni locali, che comportava una razionalizzazione e un deciso accentramento dei poteri e il superamento dell'assoluta autonomia goduta fino allora dalle oligarchie decurionali. Il problema parve al momento troppo complesso e rimase accantonato fino agli anni '50.
L'altro punto nodale era stabilire l'importanza da attribuire nel nuovo catasto alla tassa “personale”, che colpiva in modo uniforme, a prescindere dalla ricchezza, tutti i residenti maschi in età lavorativa (normalmente dai14-18 anni ai 60-70) e veniva tenuta al livello più alto possibile dai ceti dirigenti, in modo da alleggerire il prelievo sui propri beni fondiari. Anche su questa materia si doveva continuare a lasciare mano libera ai Comuni o doveva intervenire lo Stato a regolare e limitare l'imposizione? Un'indagine accertò le distorsioni e le disparità esistenti nei Comuni lombardi (l'incidenza, ad esempio, andava da meno di una lira a 60 lire annue per testa), e tuttavia anche in questo campo si lasciò in sospeso ogni decisione, perchè in effetti la riforma subì una lunga battuta d'arresto, dovuta alla durissima opposizione dei possidenti, alle migliaia di ricorsi presentati contro le stime effettuate dalla Giunta, alla chiusura assoluta del clero, che rifiutò persino la notifica dei beni che, diceva, veniva a ledere l'immunità ecclesiastica (un problema, questo della tassazione del clero, che tralascio completamente in questa sede per la sua autonoma rilevanza, ma che fu l'ultimo a trovare soluzione e non in ambito locale, bensì solo quando faticose trattative portarono nel 1757 a un concordato tra lo Stato di Milano e la Santa Sede). A frenare, sopraggiunsero anche eventi politici: dal 1733 la Guerra di successione polacca, che portò gli eserciti gallo-sardo ad occupare la Lombardia, poi le vicende che accompagnarono l'ascesa al trono di Maria Teresa; fatto sta che solo dopo la pace di Aquisgrana del 1748, potè ripartire, e giungere finalmente a conclusione, la grande operazione censuaria.
Infatti nel 1749 venne chiamato a capo della Giunta il giurista ed economista Pompeo Neri, che non solo rimise mano, aggiornandole, alle precedenti scritture, ma impresse ai lavori la spinta decisiva, affrontando e vincendo con lucidità ed energia ogni residuo ostacolo.
Subito nel 1750 egli pubblicò una Relazione dello stato in cui si trova l'opera del censimento universale del Ducato di Milano, uno studio in cui esaminava a fondo il sistema fiscale vigente con acuto spirito critico e geometrica evidenza di dettato, mettendo in luce le contraddizioni, i disordini, le ingiustizie prodotte dal catasto spagnolo, ma soprattutto dalla sua applicazione ad opera delle magistrature monopolizzate dal patriziato. Ne emergeva un atto d'accusa condotto con scientifica competenza e appassionata ansia riformatrice, con al centro la denuncia di un sistema in cui “resta a ciascheduna Comunità, o per dir meglio ai suoi Amministratori un arbitrio dispotico di fare ciò che vogliono, senza che vi sia Metodo per tenere la loro condotta regolata dentro a giusti limiti”.
Risultava evidente la connessione stretta fra riforma censuaria e riforma delle strutture politiche, dei rapporti tra lo Stato e le amministrazioni locali, tra la legge e il potere arbitrario, tra l'interesse pubblico e quello privato.
Infatti venne messa in cantiere ed emanata nel 1755 una sostanziale riforma delle Comunità, che assegnava un ruolo centrale a una nuova figura di funzionario, il “cancelliere del censo”, nominato dal governo e fedele esecutore delle sue leggi e disposizioni, mentre i vecchi Consigli patrizi venivano esautorati e ai nuovi decurioni si richiedevano non titoli di nobiltà, ma un elevato estimo, che in Casalmaggiore era di almeno 2000 scudi. Inoltre il compito di distribuire il carico fiscale tra i singoli contribuenti passava a un nuovo organismo, i Prefetti del patrimonio, eletti annualmente, secondo un principio in qualche modo democratico, dal Convocato, un'assemblea di tutti gli estimati del luogo, con criteri che attribuivano però poteri prevalenti ai maggiori estimati. Veniva in ogni campo ad affermarsi il primato borghese della ricchezza su quello aristocratico della nobiltà.
Per dare un'ultima sistemazione al censimento, venne svolta nel 1750 una grandiosa inchiesta che sottopose tutte le Comunità a una vera radiografia per conoscerne in profondità tutti gli aspetti. Fu inviato a ciascuna un questionario di 45 domande formulate con estrema precisione e chiarezza e le risposte, che sono tutte conservate presso l'Archivio Statale di Milano, offrono ancor oggi il quadro più ricco e affidabile della realtà territoriale lombarda a metà '700. Anche nel nostro Archivio si trovano le risposte di Casalmaggiore (cart. 38, fasc. 16/1) e il confronto con le risposte del 1723, contenenti il bilancio 1718 esaminato nello scorso articolo, rivela tutto il progresso compiuto in pochi anni in termini di visione della cosa pubblica, di competenza giuridica e professionale, di ordine logico e burocratico: si ha veramente la sensazione di essere passati dal Medioevo allo Stato moderno.
Rimaneva poi il censimento dei “beni di seconda stazione”, cioè delle case poste nel centro cittadino, che furono censite con gli stessi criteri usati per i terreni: mappe particellari degli immobili e “sommarioni” con la descrizione, il nome del proprietario e il valore d'estimo, calcolato capitalizzando al 4% il loro valore locativo.
La questione del “personale” venne risolta imponendo un'imposta invariabile e uguale in tutto lo Stato, fissata in L. 7 per ogni individuo maschio dai 14 ai 60 anni, con esenzione dei residenti nelle città, perchè già soggetti al pagamento dei dazi di consumo, che nel contado invece non si pagavano, non esistendo le barriere daziarie e neppure gli scambi commerciali, dato che botteghe e mercati erano concentrati nei centri urbani. Il ricavato di questa tassa doveva andare metà allo Stato e metà ai Comuni per le loro spese locali. A Casalmaggiore, ricordiamo, il problema del “personale” si intrecciava con quello importantissimo del dazio della macina, per cui si ebbe una particolare soluzione di cui parleremo.
Riguardo al mercimonio, nell'impossibilità di trovare un metodo per calcolare i reali redditi dei mercanti, si lasciò in pratica tutto come stava, limitandosi a porre un tributo dell'1,25% del loro giro d'affari annuo, in base a una dichiarazione giurata (e sperabilmente veritiera).
Il nuovo sistema di tassazione diretta era dunque già definito e si fondava su un'imposta principale, stabile e uniforme in tutto lo Stato, che gravava su ogni terreno e fabbricato in proporzione al suo valore catastale (“scutato d'estimo”), e sulle “tre tasse”: personale, mercimoniale, delle case forensi, cioè le “seconde case” di proprietà di cittadini poste nel contado, mentre le case dei contadini venivano valutate a superficie come i terreni; di queste tre tasse aggiuntive solo la prima aveva reale consistenza, ma insieme rappresentavano intorno al 10% dell'intera fiscalità, con un drastico e benefico taglio rispetto al passato (abbiamo visto che in Casalmaggiore il “personale” copriva precedentemente circa 1/3 del prelievo).
All'inizio del 1758 l'operazione sembrava conclusa e furono pubblicate le tabelle con la ripartizione dello “scutato” generale tra le varie province e città, ma non cessarono ancora le resistenze, per cui solo con decreto del novembre 1759 venne fissata al 1 gennaio 1760 l'entrata in vigore del censimento.
Il sistema funzionava in maniera lineare e ben coordinata ai vari livelli: lo Stato ogni anno emanava un editto che rendeva pubblica la somma da introitare per le sue spese ordinarie e straordinarie di ordine generale e che formavano il “carico regio e universale”, da ripartire tra le province in base allo “scutato” dei beni iscritti a catasto. Le province redigevano il loro bilancio con la quota dovuta del carico regio più le spese di loro competenza, da coprire con un'aggiunta sullo “scutato” e alcune particolari entrate; infine le Comunità mettevano a bilancio la loro quota di uscite per spese statali, provinciali e locali ordinarie (per le straordinarie occorreva il consenso dell'autorità tutoria provinciale), da sostenere con la metà delle “tre tasse” e con il tributo sulla ricchezza immobiliare per cui ciascun contribuente era iscritto nei registri d'estimo. Questo tributo, corrispondente al valore dei beni censiti, rimase, com'è noto, certo e invariato fino all'età napoleonica, incentivando il miglioramento delle tecniche agronomiche e gli investimenti in tutti i settori, in quanto l'accresciuto profitto non comportava l'aumento della tassazione.
E gli effetti si videro subito, con una riduzione del carico fiscale di circa il 16% già dal 1763 e soprattutto con la vigorosa crescita economica e civile che da allora coinvolse tutta la regione lombarda. Il catasto teresiano fu riconosciuto come il più avanzato e moderno nell'Europa del tempo e Carlo Capra, oggi il più illustre studioso del '700 lombardo, chiude la sua esposizione della nuova legge censuaria con parole di Pietro Verri che suonano come il miglior elogio di essa: “con equità si distribuiscono i pesi pubblici a misura delle forze d'ognuno; si è resa chiara l'amministrazione delle pubbliche imposte, e si è annientato il dispotismo dei potenti sui deboli, dando alle comunità un governo democratico, dipendente da un tribunale custode della legge”.

Archivio Storico Comunale di Casalmaggiore, b. 38, f. 16/1
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Pubblicato su "Casalmaggiore", bimestrale a cura
dell'Associazione Pro Loco di Casalmaggiore
Aprile 2009

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