Il periodo natalizio è anche tempo di vacanza, almeno per chi di questi tempi può permetterselo, e quindi non dispiacerà ai miei venticinque lettori se mi prendo anch’io una pausa rispetto al tema consueto di questa rubrica, che ho voluta dedicata all’inquadramento di un problema della nostra storia passata attraverso l’esame di un documento tratto dal nostro Archivio Comunale. Questa volta vorrei rivolgere l’attenzione a un documento conservato presso l’Archivio Storico Diocesano di Cremona e contenuto nella Visita pastorale condotta nel territorio del nostro vicariato nel 1579. Non si tratta di una grande notizia, anzi di una semplice spigolatura, che però riguarda uno dei maggiori pittori che hanno lavorato a Casalmaggiore e ha un valore non puramente biografico ed erudito, perché permette di accennare a importanti temi storici riguardanti la vita della Chiesa e le confraternite del tempo.
Vescovo di Cremona era dal 1560 Nicolò Sfondrati, destinato, unico cremonese, ad ascendere nel 1590 ad un breve pontificato col nome di Gregorio XIV, il quale aveva nominato suo vicario generale un casalasco originario di Quattrocase, Antonio Mario Cavalli, che spesso lo sostituiva nel fondamentale e gravoso incarico di percorrere le malagevoli strade di tutta la diocesi per ispezionare una per una, secondo le prescrizioni del concilio di Trento da poco terminato, anche le più sperdute parrocchie rurali, gli oratori, le confraternite, gli ospedali, i monti di pietà, i monasteri femminili…Una fatica immane e poco gratificante, perché si veniva spesso a contatto con ambienti di grande miseria e arretratezza sul piano materiale e spirituale, occorreva controllare e sistemare tutti gli aspetti della vita parrocchiale, dall’edificio sacro, agli arredi, alla gestione dei beni, all’amministrazione dei sacramenti, correggere la trascuratezza e l’ignoranza dei parroci e i cattivi costumi e le superstizioni dei fedeli, intervenire con ordinazioni, ammonizioni e provvedimenti disciplinari sgradevoli per chi li riceveva e probabilmente anche per chi doveva compierli.
Per fortuna il nostro Cavalli aveva già acquisito in merito una profonda esperienza, perché, appena laureato in diritto civile e canonico nell’Università di Pavia, era stato chiamato nel 1560, a soli 26 anni, ad esercitare l’importantissimo ruolo di vicario generale dal vescovo di Pavia Ippolito de’ Rossi, della grande famiglia dei conti di San Secondo, di lì a poco destinato al cardinalato, il che la dice lunga sulle doti del giovane prelato ed anche sui legami esistenti tra Casalmaggiore e i Rossi, certo ridimensionati dall’ascesa dei Farnese al ducato di Parma, ma ancora potentissimi.
Il Cavalli dunque tra il 1562 ed il 1567 percorse buona parte della diocesi pavese, visitando un’infinità di parrocchie (sono documentate perfino nove visite in un giorno), assolvendo il suo compito con scrupolo ed efficienza ammirevoli.
Nel 1568 i decurioni casalaschi lo convinsero tuttavia a rientrare in patria per avere un valido pastore ed anche per risolvere una delicata situazione, che si prolungava ormai da circa 70 anni. Era costume infatti della Curia romana nominare ecclesiastici che godevano di entrature e protezioni a ricoprire gli uffici dotati delle prebende più ricche, senza curarsi se chi le percepiva si prendeva poi buona cura delle anime oppure no. La nostra parrocchia di Santo Stefano aveva la fortuna e la sfortuna di possedere un beneficio molto consistente, che da tempo era diventato appannaggio di chierici stranieri, che piovevano da Roma, non si facevano mai vedere a Casalmaggiore, ma si impadronivano di gran parte della prebenda, lasciandone solo piccola parte ai sacerdoti locali, che molto si lamentavano, in quanto dovevano assolvere ai compiti parrocchiali nel ruolo di semplici vicari e vedevano trasferiti lontano beni che essi giustamente sentivano come appartenenti ad essi, alle loro famiglie, alla chiesa e comunità casalasca che li aveva accumulati nel tempo.
Per sanare questa piaga occorreva un uomo della preparazione e dell’autorevolezza del Cavalli, che infatti, cedendo alle insistenze, divenne nel 1568 parroco di Santo Stefano e dovette subito affrontare una lunga e difficile contesa col prelato che ne godeva il beneficio, riuscendo solo a fatica a farsi riconoscere da Roma la piena titolarità.
Nel 1572 il vescovo Sfondrati lo chiamò infine a ricoprire il prestigioso incarico di suo vicario generale e, una volta conseguito il pontificato, lo volle con sé a Roma e gli assegnò importanti cariche ed onori, fino a consacrarlo vescovo di Cervia; subito dopo però, nel gennaio 1591, la morte lo colse all’età di soli 56 anni.
Un personaggio, il nostro Cavalli, di saldissima tempra, uno degli ecclesiastici che in età borromaica più si impegnò per affermare, nel bene e nel male, la Controriforma nella diocesi cremonese. Il Romani ne traccia un ampio profilo biografico (vol. X, pp. 177-185), ma forse meriterebbe più ampio studio.
Ma per tornare all’argomento che ci interessa, Antonio Mario Cavalli mercoledì 9 agosto 1579 visitò in Casalmaggiore il Consorzio dell’Annunciazione della Beata Vergine Maria, che possedeva un altare di suo patronato nella chiesa di San Francesco dell’ordine dei Francescani Conventuali. I conventi degli ordini religiosi maschili erano rigorosamente e gelosamente esclusi dalle visite pastorali dei vescovi, perché dipendevano dalle loro Case generalizie, che avevano sede in Roma e godevano del potente appoggio della Curia papale, con conseguenti conflitti e rivalità tra clero regolare e secolare; tuttavia le confraternite laicali, anche se inserite in una chiesa conventuale, ricadevano sotto la giurisdizione episcopale ed erano quindi soggette a visita.
La nostra confraternita, si dice negli atti della Visita (Archivio Storico Diocesano di Cremona, Visite, vol. 18, pp. 169-172 di una numerazione non originaria), è eretta da molti anni, di essa fanno parte moltissime persone di entrambi i sessi e possiede un consistente patrimonio, frutto di donazioni e lasciti, di circa 400 pertiche di terra, che vengono date a livello a diversi affittuari e rendono annualmente circa 225 scudi (ciascuno del valore di 5-6 lire). Essa è retta da due sindaci (un Nicolò Storti e un Luigi Chiozzi, due delle grandi famiglie casalasche), un tesoriere, che tiene i conti delle entrate e delle uscite, e un cancelliere, che verbalizza le riunioni e questo organismo direttivo, che dura in carica un anno, viene eletto dall’assemblea dei veri e propri iscritti, che sono esclusivamente uomini, e solo quelli di maggior prestigio e ricchezza.
Gli ufficiali del Consorzio danno al visitatore un puntuale rendiconto di come vengono spesi i redditi e vale la pena riferirne per avere un’idea (per quanto parziale) delle attività caritative e di culto cui si dedicavano le confraternite, di cui sono note le degenerazioni corporative, la religiosità spesso puramente esteriore e d’apparato, il non sempre limpido maneggio del denaro, le liti infinite che sostenevano con i parroci e le altre associazioni, ma che, oltre ad esprimere un’autonomia e una partecipazione dei laici alla vita ecclesiale oggi impensabili, svolgevano anche un rilevante ruolo di solidarietà sociale.
Le entrate dunque, cui contribuiscono anche gli iscritti con libere offerte annuali, servono ad aiutare i poveri, a curare gli infermi con distribuzione di medicinali, ad assegnare la dote nuziale a ragazze povere, ad acquistare fino a cento scudi di pane poi distribuito ai poveri, specie durante le feste di Natale, a provvedere l’olio per tenere accesa la lampada dell’altare maggiore di San Francesco e, nei giorni festivi, dell’altare del Consorzio, oltre che durante l’esposizione del Santissimo; 18 lire vengono date al predicatore annuale, 15 al sagrista della loro cappella, 12 all’organista, più un’offerta a chi partecipa alle processioni che la Compagnia tiene la prima domenica d’ogni mese e durante la settimana santa.
Infine i confratelli informano il visitatore Cavalli che essi hanno affidato a Giovan Battista pittore cremonese il compito di dipingere l’ancona per il loro altare (“Dixerunt etiam quod fieri curant anconam pro dicto altari per d. Io. Baptistam pictorem Cremonensem”), e per essa hanno convenuto con lui un compenso importante, di ottanta scudi, con un’originale clausola: che il pittore, prima di consegnarlo ai committenti, dovrà esporre il dipinto nella cattedrale di Cremona, perché gli esperti possano valutare se esso merita la mercede pattuita (“cum condicione quod prius proponi debeat in ecclesia cathedrali ut fiat iudicium a peritis an mereatur dictam mercedem conventam”). Il pittore Giovan Battista si è impegnato a terminare l’opera entro il mese d’agosto 1578 ed ha ricevuto anche un anticipo di ben cinquanta scudi, ma ora i confratelli sono molto preoccupati, perché è trascorso quasi un anno dalla scadenza del contratto e non hanno più saputo nulla del loro quadro.
Comprendiamo i loro giusti timori, ma questa è una storia natalizia e quindi ebbe un lieto fine. Col senno di poi noi ben sappiamo che i confratelli non rimasero delusi, come spesso capitava quando si aveva a che fare con artisti ghiribizzosi, e che, sia pure con qualche ritardo, ricevettero la loro ancona, probabilmente anche munita dell’attesa expertise dei Cremonesi.
Attraverso le loro parole noi in realtà veniamo a conoscere l’antefatto, finora ignorato, di uno dei maggiori capolavori ancora presenti nel nostro patrimonio artistico. Infatti nel pittore che viene citato come Giovan Battista è facile riconoscere Giambattista Trotti detto il Malosso e nel dipinto commissionato dal Consorzio dell’Annunciazione la tela appunto dell’Annunciazione di Maria ancora conservata (dopo lunga disputa tra pii istituti) nella sua sede originaria di San Francesco, sia pure in una collocazione diversa, dato che la chiesa è stata completamente trasformata.
Dell’opera si sono già ampiamente occupati Enrico Cirani sotto il profilo storico e Ulisse Bocchi sotto il profilo artistico nel volume La chiesa di S. Francesco in Casalmaggiore, Casalmaggiore 1986, e Marco Tanzi nella scheda del catalogo per la mostra Barocco nella Bassa, Milano, Electa, 1999, ai quali rinvio anche per la precedente bibliografia.
Lo Zaist, storiografo settecentesco delle vicende artistiche cremonesi, nella parte bassa della tela leggeva l’iscrizione: “Jovannes Baptista Trottus Cremonensis faciebat anno Salutis Humanae 1580. aetatis suae 25”. Oggi questa scritta è scomparsa, ma il nostro frammento visitale, oltre ad attestare con sicurezza il committente dell’opera, viene a confermare sia l’autore che la datazione. Questi dati non erano mai stati veramente posti in dubbio, ma ora ne possediamo anche la prova documentale, che è sempre quella decisiva.