Per molti di noi la fiera, forse in un’immagine ormai anacronistica e crepuscolare, è sempre quella che fa sognare la bambina del poeta Govoni: Ecco che cosa resta / di tutta la magia della fiera: / quella trombettina, / la latta azzurra e verde, / che suona una bambina / camminando, scalza, per i campi. / Ma, in quella nota sforzata, / ci son dentro i pagliacci bianchi e rossi; / c’è la banda d’oro rumoroso, / la giostra coi cavalli, l’organo, i lumini.
Ma nei secoli passati la fiera era invece l’evento fondamentale della vita economica di un intero territorio, che normalmente una volta all’anno riuniva una folla di venditori e di compratori, che si scambiavano le merci più varie prodotte nella campagna e nelle manifatture locali, ma anche provenienti dalle regioni più lontane, merci necessarie alla vita e al consumo quotidiano, ma anche inconsuete, rare, esotiche, che accendevano la fantasia dei curiosi visitatori.
Certo quella di Casalmaggiore non era la fiera di Champagne, di Lipsia, di Piacenza, veri crocevia del capitalismo internazionale, dove convergevano banchieri, uomini d’affari, grandi mercanti a contrattare gli scambi che spostavano le merci su tutti i maggiori mercati europei e stabilivano i prezzi e i cambi delle monete, dai quali dipendevano la finanza e l’economia delle grandi nazioni, determinandone, quasi odierne Wall Street, i cicli di crescita e di crisi o, come vediamo in questo momento, i disastrosi crolli, in cui, come sempre, le banche si salvano, ma i cittadini soffrono.
Nei limiti tuttavia di un’economia a corto raggio, che si svolge in un ambito locale e ristretto, povero di denaro e di consumi che vadano oltre la semplice sopravvivenza, anche la fiera di Casalmaggiore svolse una sua funzione significativa e si mantenne vitale per secoli, almeno fino all’Ottocento.
Casalmaggiore era, come sappiamo, terra di confine e importante punto d’attracco per la sua posizione privilegiata sulla riva sinistra del Po, sede di un porto ben attrezzato, dove approdavano gli innumerevoli navigli d’ogni stazza che tra Venezia e Pavia alimentavano con un continuo flusso commerciale la ricchezza e il progresso civile delle terre lombarde e trasportavano ogni genere di mercanzia (chi ricorda, ad esempio, che i marmi di Carrara impiegati nella cattedrale di Cremona, imbarcati nell’alto Tirreno, circumnavigarono tutta la penisola e giunsero in loco risalendo appunto l’asta del Po?).
Nella zona del porto hanno sede anche l’Ufficio del Dazio, dove per tutte le merci in uscita, in entrata e in transito si versa un tributo proporzionale al loro valore, e l’Ufficio della Macina, che su tutti i sacchi di granaglie che vengono condotti ai numerosi mulini ad acqua posti sulle due rive del fiume, riscuote il dazio della macina, una delle maggiori, ma anche delle più odiose ed odiate tasse imposte dalla Comunità.
Ma soprattutto nel cuore della zona portuale, nel vasto spazio allora esistente tra le attuali rovine della chiesa di San Rocco e la sponda del Po, si apre la grande piazza dove si svolgono le principali attività commerciali: il mercato e la fiera.
Nulla è ora riconoscibile dell’antica topografia del luogo, che ha subito una radicale trasformazione. Un tempo infatti la piarda casalasca si estendeva assai più ampiamente a sud e il corso principale del Po scorreva lungo la riva destra parmigiana, mentre dalla nostra parte vi era solo un canale secondario, di ampiezza ridotta, che fluiva con le sue acque tranquille, senza recare alcun danno ed anzi agevolando il traffico portuale.
Ma, racconta il Romani, ecco che in modo del tutto improvviso ed imprevisto nel 1471 si determinò un evento catastrofico per la nostra terra: la corrente principale del fiume si precipitò verso sinistra, creando un nuovo alveo, e venne ad urtare impetuosamente contro la sponda casalasca, erodendola sempre più e distruggendo una larga parte delle mura di Castelnuovo e dell’abitato che si proiettavano all’esterno, nello spazio ora sommerso dalle acque. Nessun riparo era possibile e l’opera distruggitrice del fiume proseguì implacabile, finchè intorno al 1525, dice il Lodi nelle sue Memorie, “risolverono gli abitatori di gettare a terra il restante che in pericolo vedevano e ritirarsi più indietro lontano dal Po” (trascrizione Cirani, p. 26). L’argine maestro venne perciò di molto arretrato e scomparve l’antica piazza che da sempre era stata il centro commerciale della città e dell’ampio territorio circostante.
Su Casalmaggiore gravitava infatti la popolazione non solo delle Ville che formavano il suo contado, ma anche dei borghi vicini verso il cremonese, il mantovano e il parmigiano, dove il numero delle botteghe era scarso e limitato ai generi indispensabili e che, trovandosi lontani dalle rispettive città, con vie di comunicazione spesso impercorribili, dovevano rifornirsi nei centri più facilmente raggiungibili di Casalmaggiore e Viadana. Il mercato quindi che da noi inizialmente si svolgeva solo il martedì, per rispondere alla forte domanda dei compratori, dovette diventare bisettimanale e fu aggiunto anche il sabato.
Ma il momento in cui il concorso di pubblico raggiungeva il suo culmine era in occasione della fiera annuale, lungamente attesa e frequentata da una folla strabocchevole per tutti gli otto giorni della sua durata. Come tutte le fiere in genere, essa coincideva con una festività religiosa, che dapprima fu quella di San Francesco, il 4 ottobre.
Già all’inizio del ‘400 tuttavia, quando nel nostro territorio si impose, pare su impulso dei Veneziani, la coltivazione della vite e il vino divenne il prodotto agricolo di gran lunga più importante per il commercio al minuto e per l’esportazione, tale data venne a coincidere proprio con la vendemmia, quando i contadini erano maggiormente impegnati, e perciò si decise di ritardare la fiera di un mese, fissandola al 6 novembre, festa di San Leonardo, patrono della parrocchiale del Borgo di sotto, dove si trovavano il porto e la piazza del mercato e dove risiedeva la parte più povera, ma anche più operosa ed attiva della popolazione (uomini pratici nell’arte di navigare ed assai mercanti ivi stanziati per la comodità del vicino fiume, dice il Romani, riprendendo Ettore Lodi). Nacque così la fiera di San Leonardo, che è ricordata, insieme all’esenzione completa dai dazi ad essa concessa, nei Capitoli di dedizione del 21 novembre 1500, con cui Casalmaggiore si sottometteva a Venezia, già da me esaminati in altra sede. E la data, con la nuova dedicazione a San Carlo, è rimasta.
La fiera così venne a cadere nel momento più favorevole, al termine dell’annata agraria, quando tutti i prodotti erano stati riposti nei magazzini, erano abbondanti e potevano essere venduti a buon prezzo, e in più era vicina a San Martino, alla scadenza cioè dei contratti agrari e della retribuzione dei salariati, quando perciò i contadini avevano la maggiore disponibilità di denaro.
Attirati anche dalle eccezionali agevolazioni fiscali, a cominciare dall’esenzione dai dazi, di cui godevano le merci durante le fiere, venditori e compratori si affollavano e tutti trovavano un’occasione unica per realizzare buoni affari, con grande vantaggio soprattutto per le manifatture, le botteghe, le osterie e l’intera economia casalasca.
La distruzione della tradizionale piazza del mercato di fronte al porto fu per Casalmaggiore una vera iattura; si dovette cercare un altro sito conveniente, che però non esisteva, per cui bisognò ripiegare su una soluzione provvisoria che non piacque a nessuno, ma che si accettò in mancanza di meglio.
Il mercato e la fiera vennero dunque sistemati nell’angusto piazzale esistente anche oggi dove confluiscono via Baldesio e via del Lino (ma l’antico nome era, per chiari motivi, via Mercato del Lino) e lì rimasero finchè non si presentò l’occasione buona per trovare una sede alternativa.
Il 15 gennaio 1618, dopo una lunga trattativa col governo di Milano, la nostra Comunità riuscì finalmente a redimersi definitivamente dall’odiato giogo dei feudatari d’Avalos, versando alla Regia Camera 60109 scudi, una grossa somma corrispondente, come prescriveva la legge, a quella con cui Francesco Ferdinando d’Avalos aveva nel 1568 acquistato il feudo di Casalmaggiore, e subito il primo pensiero fu quello di creare un nuovo centro cittadino, che potesse divenire il fulcro della vita civile ed economica della nostra terra, quasi il simbolo della recuperata dignità e libertà.
Spiega il Romani: “Scorgendo il comune quanto fosse disagiato e mal conveniente un così ristretto foro (la piccola piazza sopra descritta), pensò di ridurre a piazza un’area abbandonata e insalubre per le acque stagnanti, ch’era posta nel centro del paese e tagliata dalle fosse del così detto Castelvecchio” (vol. V, p. 53). Venne pertanto inviata a Milano la richiesta che lo Stato cedesse alla Comunità tale area, che era demaniale in quanto occupata da fortificazioni, anche se ormai di esse rimaneva ben poco.
La risposta del governatore duca di Feria giunse il 6 novembre 1618, ed è contenuta in un bel documento, posseduto anche dal nostro Archivio, ma che nell’esemplare a stampa qui riprodotto mi è stato fornito dalla signora Lucia Mainoldi, che ringrazio per la gentilezza.
Il governatore riassume innanzitutto la questione: Casalmaggiore proprio nel suo centro è attraversata da una fossa, residuo delle antiche mura, che produce “indecenza e fetore”, per cui la Comunità ha chiesto di “otturarla per formare una piazza…per farvi li mercati et fere, dal che oltre l’abbellimento della terra si suppone dover risultare beneficio alli datii Camerali per il maggior concorso de’ negoziatori”.Il podestà di Casalmaggiore è stato incaricato di visitare il luogo insieme all’avvocato fiscale e, sulla base della sua relazione pienamente favorevole, il governo delibera di concedere “la facoltà libera ed assoluta di otturare la recitata fossa et goderne l’uso perpetuo per l’effetto ricercato”. La relazione del podestà era corredata da una preziosa planimetria redatta da un ingegnere della Regia Camera, che è stata rintracciata presso l’Archivio di Stato di Milano e pubblicata nel 1989 sulla rivista “Ritrovarci” dall’ing. Cirani, che ne trasse spunto per ricostruire nel modo più accurato l’antica topografia della piazza. A tale articolo, rinvenibile anche presso la nostra biblioteca, rinvio chi volesse conoscerne l’esatta configurazione.
Il decreto del duca di Feria precisa poi che la concessione, che avviene a titolo gratuito, esclude ogni altro uso ed è subordinata alla realizzazione entro due anni della progettata bonifica e sistemazione del sito; la Comunità deve obbligarsi in cambio al pagamento dell’annata, cioè, come si dice in altri documenti, di un’imposta annua di circa l’1.5% del valore del bene concesso, che nel caso è stimato circa 251 ducatoni, e al mantenimento delle carceri da collocare in un luogo designato dallo Stato e che trovarono posto infatti nell’antica rocca di Castelnuovo, dove sono rimaste fino alla loro soppressione.
Purtroppo gli anni successivi furono per Casalmaggiore di grandi travagli per le guerre e la recessione economica e perciò i lavori, assai costosi, procedettero a rilento, ma quelli necessari a sistemare in modo ottimale, e rimasto fino ad oggi definitivo, il mercato e la fiera, vennero eseguiti: le fosse furono colmate, i resti delle mura abbattuti, il sito tutto appianato e in più fu eretto un porticato sorretto da 18 piloni per riparare e custodire le merci e accogliere anche alcune botteghe.
Questi piloni vennero in gran parte demoliti a fine ‘700, ma quelli centrali si decise di conservarli per impostare su di essi il nuovo palazzo comunale, un edificio che subito anche per questo si rivelò debole e vacillante e minacciò di rovinare, per cui non venne mai utilizzato. Finchè nel 1898, solido e sicuro nelle strutture se non sempre negli uomini che lo reggono, il nuovo, monumentale Municipio venne a completare il moderno assetto della piazza.