Casalmaggiore, come città posta all’estremo confine fra lo Stato di Milano e numerosi altri Stati, quali il ducato di Mantova, il principato di Bozzolo e Sabbioneta, il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, il ducato di Modena, con cui intratteneva una fitta rete di rapporti economici, era terra fervida di traffici e ricca di mercanti. Naturalmente questo intenso movimento commerciale, data anche le difficoltà di transito sulle altre vie di comunicazione, si svolgeva soprattutto lungo l’asta del Po e si concentrava nell’animato e ben attrezzato porto situato all’altezza dell’attuale via Garibaldi. Qui ogni giorno numerosi “paroni”, come, alla maniera veneta, venivano chiamati i proprietari e conduttori di imbarcazioni, attraccavano con i loro navigli d’ogni stazza per caricare e scaricare le merci, sotto l’occhio attento dei dazieri, che riscuotevano i dazi dovuti per ogni mercanzia in entrata e in uscita dal nostro territorio, secondo una tariffa proporzionata al suo valore e fissata nel Dato dei dazi di Casalmaggiore e suoi Uniti stampato a Milano nel 1731, sulla base di provvisioni che risalivano al 1469. Anche le merci in transito versavano il dazio della “Longa del Po”, che costituiva un’entrata importante: qualunque nave, anche se vuota, doveva presentarsi all’impresario del dazio (che lo Stato assegnava con asta annuale a chi offriva di svolgere il servizio al costo più basso) per denunciare quanto trasportato, pena la perdita della nave e di tutta la mercanzia. Vi era anche l’esplicito divieto di ricorrere a un metodo evidentemente abbastanza praticato per sfuggire al tributo, quello di sbarcare le merci in vicinanza del dazio, per trasferirle via terra e poi reimbarcarle più a monte o più a valle.
Tutte le merci erano soggette al dazio, tranne quelle che venivano condotte al mercato di Casalmaggiore, che pagavano all’uscita solo per la parte venduta. Ecco perché il mercato, che si svolgeva due volte alla settimana, il martedì e il sabato, e la fiera di S. Leonardo (poi di S. Carlo) a inizio novembre erano occasione per richiamare una folla di compratori attirati dai prezzi convenienti, a beneficio anche delle numerose botteghe e delle locande e osterie, che in numero quasi incredibile si snodavano sul fronte verso il Po.
Le merci più trafficate erano ovviamente quelle tipiche della nostra economia: granaglie, varie derrate agricole, tessuti di vario genere e qualità, terraglie, bestiame, carni fresche e soprattutto vino, che era il prodotto per cui Casalmaggiore andava più famosa e più destinato alla vendita e all’esportazione.
Tutto ciò viene efficacemente descritto in una relazione presentata a Milano nel 1754, in vista dell’ottenimento del titolo ufficiale di città. Casalmaggiore -si dice- “in altri tempi munita di due castelli diroccati principalmente per l’irruzioni e corrosioni del Po contiguo” da più di due secoli non ha importanza militare e quindi non serve da “antemurale allo Stato di Milano”, ma in compenso è ricca di abitanti e il suo popolo è “dedito alla mercatura, sì per il comodo del Po vicino, sì per il concorso de’ confinanti, che troppo lontani dalle città qui concorrono a provvedersi più comodamente che alle loro capitali; onde i Mercatanti costituiscono all’uso di Città la loro università, fanno le loro unioni, dichiarano annualmente li loro Capi, che chiamano sopraeletti, et avendo il loro Cancelliere registrano i loro atti, fanno l’imposte e tutto ciò che al buon ordine della mercatura si appartiene, e senza veruna dipendenza dall’Università di Cremona”; inoltre in essa abbondano “gli artefici d’ogni sorte, dei quali molti luoghi circonvicini scarseggiano”.
Esisteva quindi in Casalmaggiore una Universitas Mercatorum, della quale però abbiamo solo notizie brevi e indirette, come quella appena citata. Nulla a che vedere, ad esempio, con Cremona, dove l’Università dei Mercanti, articolata nelle varie arti o paratici, ciascuna con propri statuti, propri organi dirigenti, proprie sedi, propri riti e apparati, aveva un forte rilievo politico, sociale ed economico e spesso si trovava a contendere da pari a pari con l’aristocrazia. Questa prevaleva nel consiglio generale e negli uffici pubblici, ma doveva stare ben attenta a rispettare i diritti e soprattutto gli interessi della classe mercantile, perché altrimenti sorgevano durissimi conflitti, che si trascinavano per anni e si risolvevano quasi sempre con accorti compromessi, che preservavano i privilegi di entrambe le parti. Perché esse, reciprocamente ostili, erano però sempre pronte ad allearsi per far ricadere il peso delle tasse, dell’aumento dei prezzi, dei vari gravami sulle spalle della popolazione più umile e indifesa. Per chi voglia conoscere la vivacissima cronaca di questo scontro-alleanza tra aristocrazia e mercanti, che ha accenti di ancor forte attualità, mi permetto di suggerire la lettura di un libro edito nel 1976, ma tuttora validissimo, di Giorgio Politi, Aristocrazia e potere politico nella Cremona di Filippo II, riedito da Unicopli, Milano, 2002.
La Università di Casalmaggiore non ha invece lasciato documentazione di sé e della sua attività (o forse occorrerebbe cercare meglio nell’Archivio di Milano), probabilmente perché preferiva esercitare la sua influenza sulla vita amministrativa ed economica della città dall’esterno, senza troppo apparire.
Ma la presenza dei mercanti si fece invece ben sentire quando sorse l’ipotesi di sottoporli a un nuovo sistema di tassazione. Infatti gli Spagnoli, appena assunto il potere in Milano nel 1535, avviarono un nuovo estimo, che prevedeva una nuova misurazione e valutazione dei terreni per distribuire in modo più equo l’imposta fondiaria, e l’introduzione d’una nuova tassa, il mercimonio, che doveva colpire la ricchezza proveniente dalle attività mercantili e artigianali.
Esse erano state particolarmente protette dai Visconti e dagli Sforza, per promuoverne lo sviluppo, e i relativi redditi erano rimasti praticamente esenti o soggetti solo a imposizioni straordinarie. Il fisco spagnolo, spinto anche dall’aristocrazia terriera, ritenne giusto che anch’essi venissero tassati e si aprì una vera “guerra del mercimonio”, perché i mercanti insorsero, scatenando una fierissima protesta contro ogni tentativo di controllare i loro affari e di assoggettarli a tassazione. Il nodo della questione era infatti quello, tuttora irrisolto e oggetto ancor oggi di accese diatribe, di individuare un criterio equo ed oggettivo per misurare il reale reddito percepito da mercanti e artigiani, in modo da applicare ad esso le aliquote previste per ogni altra produzione di ricchezza.
Non starò a descrivere i vari tentativi esperiti e gli ingegnosi metodi suggeriti per risolvere il problema: non c’era nulla da fare, nessuno era immune da difetti o riusciva a trovare un unanime consenso: o era troppo rigido e vessatorio, col rischio di deprimere attività che tutti riconoscevano di vitale importanza per lo Stato, o troppo blando e permissivo, col rischio di favorire l’evasione.
La “guerra del mercimonio” proseguì per più di 50 anni e si concluse per estenuazione dei contendenti: non riuscendo a trovare una soluzione accettabile per una questione che sfuggiva da tutte le parti, si finì alla fine del ‘500 per venire a un compromesso: restava il principio di tassare i redditi mercantili, ma le Comunità dovevano concordare con l’Università dei Mercanti, a titolo di mercimonio di tutte le categorie rappresentate, il versamento di un’imposta annuale forfettaria e fissa, che poi l’Università avrebbe ripartito tra i suoi iscritti senza alcuna intromissione esterna. La lunga contesa si risolse così con un’effettiva vittoria dei mercanti, perché l’entità dei loro redditi rimaneva un tabù e perché il peso di questo prelievo era modestissimo e rimaneva sempre uguale, anche se le imposizioni sugli altri redditi aumentavano e, soprattutto, se l’inflazione erodeva il valore del denaro.
Anche in Casalmaggiore venne adottato questo metodo e la Comunità e la locale Università dei Mercanti si accordarono nel 1604 per il versamento di un mercimonio di lire 1500 annue, cifra assai modica, che rimase immutata fino al ‘700 e al catasto teresiano, malgrado l’inflazione l’avesse ulteriormente ridotta.
Il nostro Archivio conserva un bel documento che ci permette di conoscere direttamente chi erano i mercanti di Casalmaggiore, quali attività esercitavano, dov’erano situate le loro botteghe (b. 37, f. 3/1). Purtroppo il documento è incompleto e riguarda solo un limitato numero di soggetti, tutti proprietari e non affittuari della loro bottega, senza che si possa comprendere quali criteri abbiano determinato la selezione. Tuttavia, anche se parziale, esso restituisce un’immagine viva e precisa delle attività commerciali che si svolgevano nella nostra città e per questo ritengo utile proporlo nella sua integrità. Esso reca la data del 12 gennaio 1723 e quindi è da riferire alle prime operazioni per il nuovo catasto, poi teresiano, ed è intitolato: Notta delle boteghe che non sono afitate con il nome de’ padroni e cognome e cosa vi essarciscono dentro. Segue l’elenco, che trascrivo solo sciogliendo le abbreviazioni.
Strada Grande (primo tratto di via Cairoli): Nicolò Moreschi (con due botteghe) una da drogheria et l’altra da prestinaro - Francesco Mauritio droghiere - Pietro Antonio Vacari da drogheria – Simone Cereghino da vedriaro – Antonio Gisotti da prestinaro – Giovanni Orsino detto Vitagliano da droghiere – Pietro Forlanetti da droghiere.
Borgo di Sotto (continuazione di via Cairoli): Vicenzo Moro da prestinaro – Paron Battista Boina da drogheria – Giuseppe (resta in bianco il cognome) scultore (forse intagliatore; si tratta di un antenato del nostro Giuseppe Raineri?) – Bortolomeo Barufino prestinaro.
Borgo di Santo Sebastiano (via Romani): Giovanni Camillo Arigo da drogheria – Carlo Bosio da drogheria – Antonio Superchi da pateria (rigattiere) e carte da gioco – Girolamo Missola da sarto repezzino (che aggiusta e rattoppa gli abiti) – Francesco Catani fa zocoli – March’Antonio Araldi prestinaro – Francesco Finelli da pizzigarolo – Mauro Galli da scudelle di pietra – Angelo Cassarino da scudelle simili – Giovanni Cassarino da scudelle simili – March’Antonio Cassarino da vasi da fiori – Domenico Tosi da scudelle di terra – Gio. Battista Giardino mariscalco – Carlo Berta sarto – Carlo Bolzone sarto repezzino – Antonio Beduschi e Battista Compagno da ferrarezza (fabbro e ferramenta) – Angelo Favagrossa sarto – Bernardo Gatti calderaro o sii da rame.
Piazza: Andrea Cova da prestinaro – Giovanni Curti da panina (tessuti) – Angelo Vaglioli una da drogheria et altra da calzolaro – Giuseppe Rastone speciale (farmacia e spezie) – Antonio Luchini da drogheria – Stefano Galli da prestinaro – Angelo Fontana speciale – Alessio Bianchi capellaro – Giuseppe Portio prestinaro – Cristoforo Porcelli da drogheria – Antonio e Giuseppe Gadazzi da corami conci – Giacomo Martinelli drogheria – Girolamo Poltronieri da drogheria – Giovanni Barile e Compagno da drogheria – Giovanni Antonio Fantina da panina – Pietro Lingeri da panina Carlo Sartorio da panina – Giovanni Giacomo Negri una da drogheria et l’altra da corami conci – Paolo Marcheselli da speciale – Andrea dalla Parte drogheria – Giovanni Storto prestinaro – Gaetano Curti da panina.
Mi limito ad osservare che accanto alle attività più comuni e ovvie, come fornaio, droghiere…, risultano presenti parecchie botteghe artigianali da cui avrebbero potuto svilupparsi produzioni “industriali”, che però a Casalmaggiore, a parte modeste fabbriche di stoviglie e di vetri, non riuscirono a decollare nemmeno nell’800.