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Venezia conferma a Casalmaggiore i suoi privilegi


Continuando il discorso svolto nel precedente articolo, possiamo ora passare all’esame diretto del documento oggetto delle nostre attenzioni.
In seguito alla totale disfatta di Ludovico il Moro, Venezia potè rientrare in possesso di Cremona e della Ghiara d’Adda nel settembre 1499 e vi rimase fino alla tragica giornata di Agnadello (14 maggio 1509), che fissò i definitivi confini tra i due stati fino alla caduta dell’antico regime. A prendere subito possesso di Casalmaggiore giunsero le milizie venete al comando di Melchiorre Trevisano e Marco Antonio Mauroceno, ai quali la Comunità andò incontro “prompto et alacri animo” senza opporre resistenza, per giurare fedeltà e obbedienza e presentare i capitoli di dedizione, riportati con le relative concessioni in un documento datato 4 settembre 1499 (b. 1, fasc. 6/1). Sarà da notare che il Romani, venendo meno per una volta alla sua acribia di grande storico muratoriano, legge in modo errato la data (1449 invece di 1499), per cui è costretto a inventarsi di sana pianta un’occupazione veneziana in tale anno (l. III, pp. 250-254); svista tanto più strana in quanto poco dopo il documento è nuovamente ricordato con esatta cronologia (l. III, pp. 301-303).
La capitolazione del 1499 venne integralmente ripresa in forma più ampia e solenne nel diploma del 21 novembre 1500 di cui andiamo parlando (b.1, fasc. 7/1).
Giova cominciare ad esaminarlo dal suo aspetto esteriore, tutt’altro che trascurabile per comprenderne il significato. Esso si presenta come un piccolo codice in autentica pergamena rilegato in pelle rossa con fregi dorati, che contiene una scrittura di nove pagine non numerate in armoniosi caratteri umanistici e con una prima pagina che è un vero capolavoro di miniatura per la bellezza delle immagini, dei colori, delle grandi iniziali in oro: una festa per gli occhi, un saggio di finissima pittura, ma soprattutto un mosaico di figure simboliche chiamate ad esprimere il significato politico e programmatico del documento.
Domina in alto un grande leone di San Marco (più in basso ne compaiono altri due più piccoli), con a fianco due colombe che recano l’ulivo della pace e lo stemma del doge Agostino Barbarigo, ritratto subito sotto in un nobile profilo barbato. Il pavone sta poi a simboleggiare la perennità dei patti e dei benefici elargiti da Venezia, sintetizzabili nel trionfo delle quattro virtù allegorizzate: la speranza e la carità più sopra, e nella fascia a piè di pagina la fede e la giustizia, che affiancano lo stemma di Casalmaggiore (la porta di un castello turrito, uguale all’attuale) e la proteggono, assicurandole che la fedeltà a Venezia l’ha salvata (Fides tua te salvum fecit, recita la scritta) e che la sua giustizia non l’abbandonerà mai (Numquam te derelinquam). A fondo pagina sta la scritta Hec est requies nostra, che appare aggiunta in un secondo tempo, quasi atto di riconoscenza con cui la nostra terra proclama la certezza di aver trovato, grazie a Venezia, la sicurezza e la pace. Il codicetto è un’autentica opera d’arte, un dono prezioso offerto dalla cancelleria veneziana alla nostra Comunità, a sottolineare l’importanza attribuita all’accordo appena concluso con essa.
Nell’ampia premessa si racconta che i nostri ambasciatori Andrea e Leonardo Chiozzi si sono recati a Venezia presso il doge Agostino Barbarigo per ottenere la ratifica ufficiale dell’accordo. Questo è diviso in 23 capitoli, nei quali gli oratori casalaschi espongono in italiano le loro richieste e ad ognuna il doge risponde in latino, talora con sintetica formula d’approvazione (Fiat ut petitur), talora con sottili puntualizzazioni, ma sempre con generosa condiscendenza, a riprova del favore verso la nostra terra ed anche dell’accurata preparazione diplomatica che aveva preceduto l’atto.
Richiamo qui i capitoli di maggior interesse (regolarizzando la grafia all’uso moderno e tralasciando le troppo complesse questioni fiscali; una sintesi dell’intero diploma si legge in Romani, l. III, pp. 304-308).
Al secondo punto del testo si chiede “che la detta terra di Casalmaggiore sia separata in tutto dalla Città di Cremona e che gli officiali della detta città di Cremona non possano intromettersi in alcuna cosa dei detti uomini”. La risposta è un netto Fiat ut petitur, che conferma senza ambiguità l’essenziale privilegio del distacco da Cremona e della sua non ingerenza negli affari pubblici casalaschi, un diritto poi fatto rispettare per secoli, visto che fino al ‘700 tutti i podestà e gli officiali dello stato vennero nominati direttamente da Milano e nessuna fu cremonese.
Al capitolo terzo si richiede e il doge concede che la pienezza del potere giurisdizionale rispetto a Cremona, già riconosciuta a Casalmaggiore, ai suoi borghi e alle vicinanze, sia estesa anche alle ville del suo distretto. Viene qui fatta una distinzione tra il centro fortificato, i borghi superiore ed inferiore sviluppatisi fuori dalle mura, le vicinanze di Vicobellignano, Agoiolo e Vicoboneghisio da sempre unite, e le ville soggette ufficialmente dal 1427 ed espressamente nominate: Rivarolo, Gambalone, Camminata, Capella, Motta, Vicomoscano, Staffolo, Fossacaprara, Quattrocase, Casale de’ Bellotti, Roncadello.
Segue la richiesta che nel giorno del mercato (il martedì) si possano condurre, comprare e vendere “ogni bestiame et robe” senza il pagamento di alcun dazio, per sollevare le depresse condizioni economiche della terra e come avviene nei mercati limitrofi dei Gonzaga e del Parmigiano. Qui la risposta è articolata: libertà da ogni dazio per due giorni all’anno, negli altri solo per le merci che non superino il valore di 20 soldi, ad eccezione del vino e dei cereali sempre esenti. E’ concessa anche l’esenzione durante la fiera di San Leonardo, che dura otto giorni. Furono i Veneziani a spostare la fiera annuale dalla festività di San Francesco a quella di San Leonardo, che cadeva il 6 novembre, alla fine dell’annata agricola (e la data, con il nuovo riferimento a San Carlo, è rimasta) ed era titolare della parrocchiale del borgo inferiore, dove risiedevano navaroli e artigiani guardati con speciale favore da Venezia e legati alla vivacissima attività del porto, cioè del traghetto che trasportava uomini e merci dall’una all’altra sponda, e del traffico fluviale.
Il sesto capitolo riguarda la conferma degli statuti già vigenti durante il precedente dominio veneto. Il doge accetta, ma con la clausola di prammatica che riserva alla sua sovrana volontà il diritto di apportare qualunque mutamento, poiché nella gerarchia delle fonti di diritto l’arbitrio del principe teneva sempre il primo posto: “salvo nobis arbitrio addendi, minuendi, corrigendi et reformandi”.
Segue la richiesta, pienamente accolta, che spetti alla Comunità il reddito del dazio della macina e del porto sul Po, che rendeva 36 ducati all’anno. Si prescrive però che il primo dazio, per non gravare eccessivamente su alimenti di base, non ecceda i due piccoli per staio di frumento e un piccolo per la mistura (da notare che il dazio sulla macina avrà sempre un ruolo capitale nelle finanze comunali); per il secondo si ordina che tutto il ricavato sia speso per la riparazione degli argini, una necessità che assorbì per secoli buona parte delle risorse comunali.
Nel capitolo 13 si concorda che il provveditore (podestà) sia un gentiluomo di Venezia e poi, a ribadire l’assoluto distacco da Cremona, si chiede che Casalmaggiore non sia tenuta a concorrere alle spese per argini e ponti del Cremonese, ma solo per i propri.
Viene poi accordato il condono di tutti i dazi del 1499, a compenso dei gravissimi oneri sostenuti per rafforzare le fortificazioni.
Un problema delicato viene toccato al punto 20: si domanda che nessun ecclesiastico che non sia soggetto alla giurisdizione di Casalmaggiore possa ricevere benefici nel suo distretto. Gli obbiettivi erano molteplici e rilevanti: innanzitutto quello di garantire in via prioritaria al clero originario del luogo una sicura collocazione e il godimento delle rendite, talora cospicue, dei benefici parrocchiali, dei diritti di giuspatronato e degli altri proventi ecclesiastici. Il clero infatti proveniva in gran parte dalle famiglie più distinte del paese, che avevano investito in lasciti e donazioni alle chiese parte del loro patrimonio, in modo da costituire una specie di dote per i loro figli, e pareva quindi giusto che le loro speranze non andassero deluse. Non si voleva poi che le ricchezze beneficiali uscissero dalla terra, a vantaggio di stranieri, col sottinteso, legato anche questo alla polemica col centro urbano, che non doveva più avvenire, come troppe volte in passato, che il clero cremonese si accaparrasse i migliori benefici. Dava infine maggior affidamento sul piano religioso e civile avere un clero “confidente”, unito da stretti rapporti alla sua terra e alla sua comunità. Venezia era particolarmente sensibile al tema e rispose che per il possibile (“pro posse”) tutti i benefici sarebbero stati conferiti ai sacerdoti locali, secondo una prassi da sempre seguita nei suoi territori.
Il punto 21 riguarda il permesso di condurre ogni genere di merci da Casalmaggiore a Venezia e viceversa alle stesse vantaggiose condizioni dei cittadini veneziani, con l’evidente intento di incrementare il già intenso volume di scambi: i Casalaschi infatti discendevano il Po con le navi che trasportavano il loro maggiore prodotto d’esportazione, il vino, per poi risalirlo carichi di merci da rivendere con lauti guadagni in patria e nei territori vicini. 
Nell’ultimo capitolo è formulata una richiesta contingente ma non meno significativa: nel 1497 una gravissima pestilenza aveva devastato il paese, uccidendo più di mille persone. Per scongiurarla si intraprese la costruzione d’una chiesa dedicata a San Rocco nel luogo, vicino al porto e alla piazza sede del mercato, dove si trovava un’osteria con annesso un postribolo di proprietà del Comune. Il voto riparatore fece subito cessare la peste, ma ora mancano i mezzi per portare a termine la fabbrica e per questo si chiede che sia lasciato al Comune il dazio sulla vendita del vino al minuto, che rendeva lire 200 annue, una somma ragguardevole che indica la frequenza delle osterie e quindi l’importanza del borgo come centro di rapporti e di commerci. Venezia dichiara benevolmente di rinunciare al dazio per sei anni, purchè la Comunità garantisca di dedicare la somma esclusivamente a quest’uso.
Ma non sempre i santi ricevono la giusta riconoscenza per le grazie elargite e la chiesa, notava tristemente lo storico Lodi, “per picciola che fosse principiata, nondimeno stette alquanto imperfetta”. Poco dopo anzi venne del tutto travolta dalla furia del Po insieme a una larga fascia della piarda antistante Castelnuovo ed anche la nuova chiesa sempre intitolata a San Rocco costruita nel ‘500, assai più arretrata, non ha avuto una sorte più felice, a giudicare dallo stato di miserevole reliquia in cui si trova attualmente. Colpa degli uomini o nemesi di San Rocco o magari della sacrificata osteria?

Archivio Storico Comunale di Casalmaggiore, frontespizio dei Privilegi concessi da Venezia a Casalmaggiore, 21 Novembre 1500
Mobirise
Pubblicato su "Casalmaggiore", bimestrale a cura
dell'Associazione Pro Loco di Casalmaggiore
Ottobre 2007

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