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La Comunità di Casalmaggiore costruisce la sua chiesa abbaziale


Il 6 maggio 1754 Casalmaggiore divenne la sesta città della Lombardia austriaca, un titolo di cui potevano fregiarsi allora solo Milano, Cremona, Pavia, Lodi e Como. 
Nel dispaccio con cui l’imperatrice Maria Teresa le conferiva tale onore, Casalmaggiore era celebrata, traducendo un po’ approssimativamente dal solenne latino, per la sua felice posizione sul Po, l’elevato numero degli abitanti, la bellezza dei suoi edifici pubblici e privati, la presenza di famiglie nobili ed illustri, il suo ginnasio, la fertilità delle campagne e l’abbondanza dei commerci, la chiesa arcipresbiteriale così ben fornita di redditi che non le mancava nulla se non il riconoscimento di sede vescovile.

In realtà Casalmaggiore era salita al rango di città in modo un po’ avventuroso, grazie a circostanze abilmente sfruttate dai suoi amministratori, e presentava due vistose anomalie: la sua provincia comprendeva un territorio quanto mai ristretto, limitato alle piccole frazioni che da sempre formavano il suo contado, e non era sede episcopale, titolo pressochè imprescindibile fin dal primo Medioevo per essere considerata città.

La prima anomalia venne in qualche modo sanata nel 1756, quando, nell’ambito di una generale riforma amministrativa, venne creata una nuova provincia che comprendeva diversi comuni del Cremonese e del Mantovano, di cui prima Bozzolo e poi Casalmaggiore divennero capoluogo; quanto alla seconda già nel 1766 venne avanzata a Roma e a Cremona la richiesta di elevare la parrocchia a episcopato, ma ogni speranza fu stroncata dall’intransigente opposizione del vescovo di Cremona, che dopo aver subito la formazione delle diocesi di Crema (1580) e di Fidenza (1601), con la perdita di ampi e importanti territori, non voleva che la diocesi venisse amputata anche del Casalasco. A titolo quasi di compenso, Pio VI rilasciò il 10 settembre 1794 una bolla che elevava l’arciprete di Casalmaggiore alla dignità di abate con diritto a pontificare con baldacchino, mitria, bastone pastorale e di servirsi dell’anello, della croce d’oro e della cappa magna: onorificenze altisonanti, ma che nella sostanza non cambiavano nulla e stavano a significare che Casalmaggiore non sarebbe mai stata a capo di una diocesi (ma che tuttavia sono state gelosamente mantenute fino agli anni ‘60 del Novecento).

Durante il periodo napoleonico Casalmaggiore perse la sua autonomia e rientrò nel Dipartimento dell’Alto Po con capoluogo Cremona, ma al ritorno degli Austriaci l’imperatore Francesco I la elevò nel 1816 al rango di “Città Regia”, un titolo questa volta puramente onorifico, che non la sottraeva alla dipendenza amministrativa da Cremona, ma che veniva a soddisfare il sempre forte orgoglio municipale dei Casalesi.

Rinacque allora la volontà di edificare un edificio religioso del tutto nuovo, degno del prestigio della città e della dignità abbaziale recentemente ottenuta, in sostituzione dell’antichissima e ormai cadente chiesa parrocchiale.
Dobbiamo tener presente quanto intenso fosse ancora il sentimento della “religione civica”, che faceva della chiesa non solo il centro della vita religiosa, ma quasi il simbolo autocelebrativo dell’identità, della nobiltà e potenza della città e dei suoi abitanti. Permaneva qualcosa dello spirito medievale, quando la chiesa non era vista come istituzione separata appartenente al clero, ma come fulcro della vita cittadina, dove gli uomini si riunivano per il culto divino, ma anche per discutere i problemi di tutti, per celebrare le solenni festività del santo patrono con il concorso di tutti i ceti sociali, per ritrovarsi nei momenti di gloria e nei momenti di lutto, legati da una vivissima coscienza civile e comunitaria. Da questo spirito erano nate le grandi cattedrali, sorte come impresa collettiva e con la partecipazione di tutti, quando ogni città faceva a gara perché la sua chiesa fosse più grande e più splendida d’ogni altra, testimonianza della fede di un popolo, ma anche della sua grandezza, ricchezza, civiltà e amore delle arti.

L’occasione per realizzare questa aspirazione si presentò quando il 9 settembre 1836 morì il nobile Giovanni Vicenza Ponzone, che nel suo ultimo testamento del 1833 aveva disposto che l’erede Ippolito Longari Ponzone versasse alla Fabbriceria della chiesa abbaziale di Santo Stefano dopo la sua scomparsa L. 100.000 di Milano “riconoscendo urgente e direi quasi di necessità l’edificazione di una Chiesa primaria in questa Città in sostituzione della Chiesa di Santo Stefano, la quale oltre ad essere angusta e malsana ne è poco sicuro il fabbricato, e non è in verun modo adattata alla Città, alla popolazione e alla dignità di Abaziale Mitrata di cui è investita”.
Il lascito era tuttavia subordinato a due condizioni, pena l’annullamento e l’assegnazione della somma all’erede: poiché la donazione non era certo sufficiente a compiere l’opera, la città doveva impegnarsi a reperire altre 200.000 lire; inoltre essa doveva essere avviata entro il termine perentorio di quattro anni.

La responsabilità per la direzione e sovrintendenza ai lavori veniva attribuita ad una commissione presieduta dall’abate e dal podestà, mentre la Fabbriceria doveva seguirne il regolare svolgimento sotto l’aspetto tecnico e pratico (rapporti con i fornitori, contabilità…). Di entrambi gli organismi facevano parte le maggiori autorità civili ed ecclesiastiche, chiamate a collaborare in uno spirito di fattivo impegno per la riuscita dell’impresa comune. Infatti esse procederanno sempre in perfetto accordo e, pur trattandosi di un edificio religioso, le scelte decisive nei momenti più difficili saranno sempre assunte dai laici e in particolare dall’autorità municipale.

La sfida venne subito accettata e due ingegneri casalesi vennero incaricati di presentare una relazione tecnica sullo stato dell’edificio esistente e su quanto si poteva ricavare dal materiale di demolizione. L’accuratissima relazione descrive una situazione gravemente compromessa: i muri fino all’altezza di tre metri son imbevuti d’umidità e non possono essere intonacati, tanto che si sono dovuti staccare dalle pareti quadri ed arredi per non rovinarli, il pavimento è pure umidissimo, le volte presentano crepe non più riparabili e tutta la struttura minaccia rovina.

Già il 12 luglio 1837 tre importanti architetti, i cremonesi Luigi Voghera e Carlo Visioli e il casalasco Fermo Zuccari, vennero invitati a presentare un progetto e un preventivo di spesa per il nuovo tempio, che doveva essere adatto “alla cospicuità del Comune ed alla dignità di Abbaziale, da erigersi in sostituzione dell’attual Chiesa matrice vetusta, ristretta, insalubre e mancante della necessaria maestà”. Giunti nei termini previsti, i tre progetti vennero esaminati il 16 febbraio 1838 e venne prescelto quello dell’arch. Zuccari per la sua eleganza e armonia artistica, ma anche perché comportava una minore spesa e, pur facendo ruotare di 90° l’orientamento dell’edificio esistente, la cui facciata era allora rivolta verso l’attuale via Formis, restringeva solo in minima parte la proprietà della casa abbaziale. Il progetto venne poi sottoposto al parere dell’apposita commissione tecnica governativa a Milano, che impose varie modifiche per rendere più solida e funzionale la struttura, naturalmente con un aumento della spesa, quantificata alla fine in quasi L. 390.000 complessive.

Nel frattempo la Fabbriceria (ne facevano parte un sacerdote e tre laici) prese la sua prima iniziativa pubblica e il 3 febbraio 1838 rivolse un appello a tutti i cittadini d’ogni ceto sociale perché contribuissero generosamente alla raccolta di fondi. Bello è lo spirito civico che pervade il testo: “i Casalesi vorranno attestare pubblicamente il loro zelo per la religione, l’amore che li anima pel bello e per l’utile, il sempre vivo ed ardente fervore del decoro patrio”; originale è anche il metodo per favorire l’adesione: i cittadini sono invitati a sottoscrivere un’azione di L. 48, pagabili anche a rate di una lira al mese per quattro anni, e naturalmente i più facoltosi possono impegnarsi per più di un’azione.
Diversi “collettori” si mettono all’opera per sollecitare e raccogliere le offerte e in pochi mesi, alla fine del 1838, si può tirare un bilancio del tutto confortante, segno che la fiducia nei Casalesi era ben riposta. Un preciso resoconto riporta il nome e la professione di tutti i donatori con la cifra offerta da ognuno e possiamo constatare che all’appello hanno risposto veramente tutti: maestri e calzolai, falegnami e ingegneri, nobili e pizzicagnoli… Ovviamente la maggior parte delle offerte sono state di 48 lire, ma non mancano cifre assai più elevate, perché se in Casalmaggiore erano allora numerosissimi i poveri assistiti dalla pubblica carità, non mancava però un forte nucleo di possidenti agricoli, di nobili, di professionisti di antiche tradizioni e con patrimoni consistenti, che formavano la classe dirigente e detenevano il monopolio pressochè esclusivo delle cariche pubbliche e di governo. Ad esempio, i coniugi marchesi Vaini fecero l’offerta più alta, L. 4800, il conte Antonio Busi offrì 300 lire, il nobile Luigi Chiozzi L. 1324, il podestà Paolo Fadigati L, 960, il nobile Luigi Molossi L. 1600 (parte in denaro e parte in mattoni della sua fabbrica di laterizi), il professor Giuseppe Diotti L. 288.
La somma totale raccolta fu di L. 45.157 e i sottoscrittori furono circa 300, quasi il 10% su una popolazione parrocchiale di circa 3500 anime: un grande risultato, se si pensa che anche 48 lire erano allora una cifra di tutto riguardo.

La generosità dei Casalesi aveva fruttato quasi un quarto della somma necessaria, ma si era ancora ben lontani dal raggiungere le 200.000 lire richieste dal testamento del Vicenza Ponzone. Si poteva contare su circa 20.000 lire di ricavo dal materiale di risulta, altre 4000 erano state lasciate per testamento dall’abate Giovanni Miglioli deceduto l’8 dicembre 1837 e il suo successore, l’abate Giuseppe Marenghi, subentrando nel cospicuo beneficio di Santo Stefano, aveva destinato alla nuova chiesa 10.000 lire della sua prebenda, da versare in rate di 1000 lire all’anno.

La questione era però urgente e a questo punto l’Amministrazione Comunale decise di troncare ogni attesa e di intervenire in modo risolutivo. Il podestà Paolo Fadigati, già prefetto napoleonico a Reggio Emilia, e riconfermato nella carica tre volte dal 1831, al quale la profonda fede massonica non impediva di tenere ottimi rapporti con il clero locale più aperto e che si era subito impegnato nell’impresa “patriottica” di dare alla città un nuovo tempio, il 23 settembre 1839 convocò i decurioni del Consiglio, che con voto unanime deliberarono di incamerare quanto fin allora raccolto e di assumere a carico dell’estimo del Comune l’erogazione dell’intera somma, da coprire con l’imposizione per 20 anni di una sovrimposta di mezza lira per ogni scudo d’estimo nella tassazione dei beni. Per disporre immediatamente del denaro da versare alla Fabbriceria per l’esecuzione dei lavori, si decise di ricorrere in parte a mezzi ordinari di bilancio, in parte all’accensione di un mutuo.

Mi sia concessa una breve digressione. La delibera del Consiglio incontrò la netta opposizione delle frazioni: un folto gruppo di residenti, soprattutto di Casalbellotto e di Rivarolo del Re, inviarono una dura lettera di protesta contro questa nuova imposizione ritenuta gravosa ed inutile. Si ripetè anche in questa occasione il contrasto che da secoli opponeva la città e il suo contado, sempre timoroso di venir sfruttato con una tassazione che colpiva maggiormente le frazioni e per spese che andavano a vantaggio solo del centro urbano. In effetti il sospetto era più che fondato e l’iniqua distribuzione dei carichi e del potere tra la città e la campagna era allora generale e ingiustificabile sul piano del diritto e dell’uguaglianza, ma permetteva anche uno sviluppo civile ed economico altrimenti impensabile dei centri privilegiati. La contraddizione (un tempo, marxianamente, si sarebbe chiamata “lotta di classe”) è ben presente anche oggi, addirittura a livello planetario fra aree geografiche e paesi ricchi e poveri. E’ componibile o è destinata a rimanere sempre aperta?

Per procurarsi il prestito il Comune prese contatti con la Congregazione Centrale di Milano, organo di governo dove sedevano i rappresentanti di tutte le città del Lombardo-Veneto, fra cui l’oratore di Casalmaggiore Luigi Molossi, e poi con la Commissione Centrale di Beneficenza, che aveva la delega in materia, e ottenne fra il 1841 e il 1843 due mutui per L. 50.000 senza interessi, da restituire in quattro anni; poi nel 1846 un altro prestito di L. 14.000 con l’interesse minimo del 4%.

Assicurato così il finanziamento delle 300.000 lire voluto dal Vicenza Ponzone, occorreva assolvere la seconda clausola da lui imposta: l’inizio dei lavori entro quattro anni dalla sua morte, cioè entro il 9 settembre 1840. Fu una vera corsa contro il tempo: il 13 luglio 1840 fu indetta la gara d’appalto, ma intanto si condussero i primi lavori in economia con inizio ufficiale il 1 luglio. La vecchia chiesa venne sgombrata di tutti gli arredi e demolita, l’architetto Zuccari tracciò in pochi giorni sul terreno il disegno della nuova fabbrica e il 22 luglio 1840 il podestà Paolo Fadigati, l’abate Marenghi, tutte le autorità civili e religiose, un gran corteo di popolo festante accolsero con la massima solennità il vescovo di Cremona Bartolomeo Casati, che venne a consacrare la prima pietra del nuovo Santo Stefano, e venne collocata all’ingresso del futuro presbiterio.

Nell’occasione venne pubblicato dai Fratelli Bizzarri, ottimi stampatori casalesi, un opuscolo scritto dal direttore delle Scuole superiori prof. Luigi Castiglioni, il quale, dopo aver ricordato gli eventi che avevano portato al felice inizio dei lavori, riporta un’accurata cronaca della giornata, trascrive tutte le numerose epigrafi composte per la cerimonia e conclude con l’augurio che il tempio possa essere condotto presto al fine desiderato.
In particolare nella parte finale egli si rivolge direttamente a Giuseppe Diotti “il quale fu tra i primi ad efficacemente giovare la commendevole impresa”. E prosegue: “Oh! Venga il giorno, che cessate nell’Accademia Carrara di Bergamo le fatiche assidue che vanno, ahi troppo, logorando una vita alla patria preziosa, torni a ricrearsi dell’aere natio, che già una volta gli rintegrava la minacciata salute! Oh! Venga il giorno, che riposati fra noi conduca e floridi ancora gli anni della vita che agiata gli avanza, e schifo dell’ozio che fa torpidi gl’ingegni, e dal quale sempre abborriva coll’animo desideroso di gloria, tratti fra noi pure l’industre pennello e […] doni il novello tempio d’un suo lavoro, in che i Casalesi apprendano come il protomartire Stefano loro Patrono versava il sangue e la vita per la confessione di Cristo”.

E’ un discorso di inconsueta ampiezza, svolto con grande calore ed enfasi, che vale la pena conoscere anche per porre in rilievo, dopo la bella mostra recentemente dedicata al nostro pittore, il ruolo pubblico da lui svolto e la posizione centrale a lui riconosciuta nella vita cittadina. Più in generale mi pare una bella testimonianza di come la società vedesse nell’artista l’uomo capace con le sue opere di creare il bello e di giovare con questo al progresso civile di tutti e in particolare della sua terra. Era tale la speranza che si riponeva in Diotti che si giungeva a suggerirgli esplicitamente il soggetto dell’opera che la città attendeva da lui. Purtroppo l’appello cadde nel vuoto e non risulta che il pittore si sia mai neppure provato a realizzare il richiesto “Martirio di Santo Stefano”. Il catino absidale pertanto rimase a lungo bianco d’intonaco e solo nel 1932 il pittore Pietro Verzetti eseguì il poco memorabile affresco che oggi lo ricopre.

Infine per tutelarsi da ogni rischio il Comune chiamò il notaio Giovanni Amadini a redigere il processo verbale di tutta la cerimonia, per attestare con atto pubblico il pieno adempimento di tutte le disposizioni testamentarie del Vicenza Ponzone e ottenere il rilascio della donazione, che gli eredi tendevano a contestare.
Si era così raggiunto un importante traguardo, ma il cammino da percorrere era ancora lungo.



La pianta della nuova chiesa abbaziale costruita con orientamento nord-sud secondo il progetto dell’arch. Fermo Zuccari, spicca in colore scuro sopra la pianta, in basso in tinta più chiara, della chiesa antica orientata in direzione est-ovest. Ringrazio vivamente la Signora Lucia Mainoldi che mi ha fornito la riproduzione della stampa.
Mobirise
Pubblicato su "Casalmaggiore", bimestrale a cura
dell'Associazione Pro Loco di Casalmaggiore
Marzo 2018

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