free bootstrap templates

Umberto Saba soldato e poeta a Casalmaggiore durante la Grande Guerra


Subito dopo l'inizio del conflitto nel maggio 1915 i comandi militari italiani dovettero affrontare il grave problema di dare una sistemazione ai prigionieri di guerra, ai militari austriaci catturati al fronte che dovevano essere ricoverati all'interno del Paese. I prigionieri nel corso dei tre anni e mezzo di guerra ascesero a molte migliaia e si calcola che il loro numero variò tra gli 80.000 e i 180.000, a parte gli oltre 400.000 che si aggiunsero quando l'esercito austriaco si dissolse in seguito alla battaglia di Vittorio Veneto nell'autunno del '18. Per accogliere questi prigionieri vennero creati in tutta Italia 83 campi d'internamento, che funzionarono spesso in condizioni di enorme disagio per i detenuti, come mostra il caso, rimasto tristemente famoso, dei “dannati dell'Asinara”.
Anche Casalmaggiore, insieme a Pizzighettone, venne individuata in provincia di Cremona come sede di un campo di prigionia. Esso in tutta fretta venne allestito nell'area normalmente adibita a Foro boario e Macello pubblico situati dal 1865 in via Azzo Porzio, nell'antico orto del convento dei Barnabiti che si estendeva dal cortile dell'attuale Museo del Bijou fino alla palestra di via Marconi e che offriva lungo il perimetro un ampio porticato cui si aggiunsero provvisori attendamenti. Malgrado la precarietà della sistemazione e la ristrettezza degli spazi, il campo di Casalmaggiore accolse un notevole numero di prigionieri e al 1° gennaio 1917, secondo i dati dell'Archivio Storico dell'Esercito, erano presenti 25 ufficiali, 8 cadetti e 447 soldati di truppa, in tutto 480 militari austriaci. Almeno otto di essi morirono durante la prigionia e vennero sepolti nel cimitero di Casalmaggiore: la loro tomba si trova nel settore che accoglie anche i caduti italiani, e una semplice lapide marmorea reca incisi per ciascuno il nome, la data di nascita e di morte, il grado militare e una croce per i cristiani e una mezza luna per l'unico musulmano. Queste tombe vengono ancora oggi curate ed onorate.
Questo campo di prigionia fu l'occasione per il breve incontro tra Casalmaggiore e il poeta Umberto Saba (Trieste 1883- Gorizia 1957). Saba nel 1915 aveva ormai più di trent'anni: aveva già svolto il normale servizio di leva nel 1907-1908 prevalentemente in una caserma di Salerno, ed era ampiamente conosciuto negli ambienti letterari per le molte poesie pubblicate su piccole riviste, ma non ancora corrette e raccolte in un'organica edizione, che verrà solo nel 1921.
E' ben noto che Saba concentrò tutta la sua esistenza e la sua poesia nella sottile, interminabile analisi del proprio Io e dei suoi laceranti, insolubili problemi fisici e psichici, ma nei mesi che immediatamente precedono l'ingresso in guerra dell'Italia egli visse il suo momento di massima partecipazione alle vicende della storia e della vita politica e da buon triestino, acceso da sacro fuoco patriottico, aderì fervidamente al composito movimento nazionalista ed interventista che spingeva verso l'alleanza con l'Intesa e la guerra, fino a scrivere alcuni articoli sul Popolo d'Italia, il quotidiano proprio allora fondato da Mussolini per sostenere nei toni più estremistici la necessità dell'intervento.
Nel giugno 1915 egli venne richiamato alle armi e assegnato, per ragioni d'età e di salute, a un servizio militare ridotto. Dopo alcune settimane d'addestramento in una caserma di Milano, due parti del suo battaglione vennero inviate al fronte, il resto nella Milizia territoriale, addetta al presidio del territorio nelle retrovie. Saba è tra questi e in agosto prende servizio come soldato semplice (una domanda per avere il grado di ufficiale venne respinta) nel campo per prigionieri austriaci a Casalmaggiore.
Lo vediamo in una foto scattata proprio nel 1915 non sappiamo se a Casalmaggiore o altrove, in cui appare come un bel ragazzone maturo, alto, in divisa militare, ma senza nulla della posa impettita e fieramente marziale in cui si facevano ritrarre i soldati dell'epoca: egli si volge verso di noi di tre quarti, con lo sguardo perso e distante, la gamba morbidamente ripiegata, tutto avvolto in una corta mantelletta di lana pesante, che più che la corazza del guerriero sembra aver la funzione di proteggerlo e di isolarlo.
I suoi compiti sono particolarmente modesti, come scrive il 25 agosto all'amico Aldo Fortuna: “Custodisco ed elenco e qualche volta interpreto i soldati austriaci, che i tuoi prodi compagni ànno fatto prigionieri nel Carso” Già questa breve frase rivela la condizione psicologica del poeta, il senso di inutilità e di noia per le umili mansioni cui è addetto, e la terribile frustrazione che lo coglie nel vedere totalmente deluso il suo desiderio ardente di combattere al fronte per la liberazione delle sue terre e, soprattutto, di mettere alla prova il suo coraggio e il suo valore, di realizzare la sua ansia di gesta eroiche e gloriose, quasi come rivalsa contro ogni senso d'inettitudine e di inferiorità che egli avverte dentro. E' questo, come vedremo, il tema fisso che torna ossessivo nelle poesie di questo periodo, dettato dalle sue convinzioni politiche, ma in particolare dalla volontà di dimostrare a se stesso e agli altri la sua forza, la sua capacità di combattere la guerre vera, contro un nemico reale, perché “il soldato che non parte in guerra / è femmina che invecchia senza amore”, scrive in una poesia del 1915. Naturalmente la vita che conduce in Casalmaggiore si pone agli antipodi di queste aspirazioni e si risolve in un acuto senso di diversità rispetto ai commilitoni contenti di restare fuori da ogni rischio, di intimo avvilimento e umiliazione. In Vita di guarnigione, una delle liriche più sintomatiche del soggiorno casalasco, Saba confessa: “No, non son pago io; no, una prova manca / alla mia vita che non chiedon gli altri. / “Meglio che al fronte”, ed ammiccano scaltri; / vita di guarnigione non li stanca / di poco onore e di nessuna pace”. Aldilà dell'impegno irredentista e del senso del dovere, c'è al fondo un dubbio su se stesso che la partecipazione alla guerra dovrebbe chiarire, come dice nella stessa lirica: “Aver forse paura e non fuggire, / saper uccidere, saper morire, / Dio sa quest'arte s'io l'apprenderò?”. Nella lettera al Fortuna sopra citata egli conclude: “Questa guerra io pure l'ò desiderata come nessuna cosa al mondo […] Morirò probabilmente questo inverno, non di ferite ma di malattia e di noia” e in una successiva del 4 ottobre: “Non si può scrivere da Casalmaggiore l'epopea della nostra guerra, epopea che avrei scritto di certo se mi avessero mandato dove sono i due terzi dei miei compagni della caserma di Milano”.
Intorno al 20 ottobre 1915, dopo meno di tre mesi, giunge alla sua compagnia l'ordine di partire da Casalmaggiore e il poeta esulta in una lirica che leggeremo, e sembra dimenticare ogni tristezza nella speranza di essere inviato in zona di guerra. Invece egli viene confinato per alcuni mesi a Roma come scrivano presso il Ministero della Guerra, da dove viene poi “scacciato per brutta calligrafia e negligenza abituale” e trasferito nella zona intorno a Milano per un lavoro d'ufficio oppure per scortare materiale militare, in un susseguirsi di esperienze negative, tanto che nell'ottobre 1918 la conclusione vittoriosa della guerra lo vede ricoverato all'Ospedale Militare di Milano con una diagnosi di “nevrastenia”.
A salvarlo dalla crisi interviene un rinnovato impegno letterario che lo spinge a preparare un manoscritto comprensivo di tutta la produzione poetica precedente selezionata e profondamente corretta, in vista della prima edizione del Canzoniere, che uscirà nel 1921 in 600 copie a cura e a spese dell'autore. Inoltre un colpo di fortuna nel 1920 lo fa diventare proprietario a Trieste della “Libreria Antica e Moderna”, una libreria antiquaria che gli darà poi per sempre un lavoro, una sicurezza economica e la tranquillità per poter essere solo e totalmente poeta.
Sappiamo bene tuttavia che in lui si alterneranno sempre fino alla fine periodi di serenità e di depressione, con disturbi psichici e psicosomatici di cui Saba continuerà a querelarsi e cercherà, ricorrendo a tutte le possibili terapie, compresa la psicanalisi, di liberarsi, senza mai riuscirvi e, in fondo, senza mai volerlo, perché, alla maniera dello Zeno di Svevo, la malattia sarà per lui un meccanismo di difesa, dietro cui trovare riparo dalla realtà esterna, per continuare a dedicarsi alla sola realtà per lui esistente, alla vocazione esclusiva che lo compensava d'ogni male, alla poesia che fioriva dallo scavo dentro di sè e nella vita di tutti gli uomini.
Anche alla luce di questo destino conviene chiedersi se il periodo trascorso a Casalmaggiore fu nella vita di Saba un episodio marginale, di valore puramente cronachistico, oppure se esso incise più in profondità, e soprattutto se quanto egli scrisse in quei mesi ha un rilievo nel complesso della sua poesia oppure si risolse in un puro diversivo presto dimenticato, come potrebbe far pensare il pressochè integrale rifiuto che colpì questa esperienza.
Saba compose a Casalmaggiore un piccolo corpus di liriche, otto per la precisione, che a buon diritto possiamo chiamare il suo “canzoniere casalasco”. In ordine cronologico, i titoli sono: La Sveglia, Addio ai compagni, Vita di guarnigione, Il trombettiere della Territoriale, Accompagnando un prigioniero di guerra, Sera d'autunno, L'invasore, Partendo per la zona di guerra.
La sorte di queste poesie fu particolarmente sfortunata. Man mano che egli le componeva, le inviava per posta all'amico Francesco Misiano, un letterato di vaste conoscenze con cui intrecciò da Casalmaggiore una fitta corrispondenza, sollecitandolo a farle pubblicare. Esse infatti uscirono tutte prontamente su piccole, ma vivaci riviste letterarie, ma già nel 1921 la prima raccolta unitaria di cui abbiamo parlato, ne presenta solo quattro, ridotte a tre nel manoscritto del 1943 preparato per l'edizione del Canzoniere del 1945, che però conserva solo Accompagnando un prigioniero di guerra, unica scampata anche nelle successive edizioni, compresa quella che esce postuma presso Einaudi nel 1961 con l'intera opera poetica sabiana.
Questo progressivo disconoscimento implica un giudizio assai severo, confermato anche esplicitamente nelle sue notazioni critiche: Saba si considerò sempre (o almeno mostrò di considerarsi) il maggior lirico vivente, con una spiccata tendenza all'autocelebrazione (Montale parlava di “autolatria”) e a polemizzare contro quanti, critici, letterati, altri poeti, sembrassero misconoscere questa lampante verità, e tuttavia in più luoghi egli ribadisce lo stesso concetto: “Saba non fu il poeta dell'altra guerra. I poeti dell'altra guerra furono Ungaretti e su un altro piano (popolare) Giulio Barni […] Forse gli nocque il fatto di essere stato un soldato, ma non un combattente […] E chi lo avesse conosciuto allora, avrebbe potuto agevolmente pensare che egli fosse veramente un “uomo finito”. E nel 1924, in un sonetto di Autobiografia, ricorda con tristezza: “Ritornai con la guerra fantaccino […] Ma non più dei miei giorni in sul mattino / troppo sotto le cose son restato”.
La stessa durezza liquidatoria di questa autocritica mostra senz'altro che egli ritenesse sbagliata e fuorviante la via intrapresa a Casalmaggiore e negli anni della guerra (almeno fino al 1917), ma rivela pure che quel periodo fu estremamente importante per una definitiva chiarificazione sulle proprie idee, sulla propria esperienza di vita e sul proprio far poesia. Furono anni di tormento e di frustrazione che però segnarono uno spartiacque nella sua esistenza: egli ebbe il coraggio di guardarsi dentro, di rifiutare posizioni avventatamente prese e di riconoscersi nella sua verità di uomo e di poeta.
Prima di tutto nel rapporto con i commilitoni egli non ritrova quel sentimento caldo di simpatia e di amicizia che aveva provato al tempo della chiamata di leva nel 1908 nella caserma di Salerno, quando per la prima volta, superando l'isolamento dell'adolescenza, si era ritrovato parte di una comunità e di un popolo, stretto in un legame di cameratismo e di solidarietà a tutti suoi compagni, con la gioia di sentirsi e di essere considerato uguale a loro, “di non essere più solo, di appartenere a qualcosa e a qualcuno”. Da quella scoperta erano nati i Versi militari, un ciclo di 27 sonetti che rappresentano per Saba la prima prova di una poesia realistica e che, al contrario di quelli casalaschi, vennero tutti conservati anche nell'edizione definitiva del Canzoniere. “Me stesso ritrovai tra i miei soldati. / Nacque tra essi la mia Musa schietta”, dirà in Autobiografia. Quella felicità di sentirsi vicino e uguale a tutti a Casalmaggiore non si ripete, anzi il Saba del 1915 si sente lontano e diverso e giunge a dire: “Voi quasi m'odiavate, ed io vi amavo, / cari compagni”. Pesano le differenze di mentalità, di cultura, di età, si vede ed è visto come “fuori dai ranghi”, anche perché deve constatare che i soldati attorno a lui hanno idee del tutto opposte alle sue riguardo alla guerra.
E' questo un altro motivo di profondo ripensamento e di crisi. Saba, come sappiamo, era giunto a Casalmaggiore su posizioni accesamente interventiste, convinto che la guerra fosse l'occasione non solo per liberare le terre irredente, ma anche per stringere tutto il popolo italiano attorno agli ideali patriottici e nazionali, esaltando il suo eroismo e il suo spirito di sacrificio. Ora invece egli scopre tutta la falsità della retorica nazionalista, la “bella guerra” e la “bella morte” possono infiammare lui e i letterati come lui, ma per i contadini e gli operai che gli vivono accanto sono frasi vuote e insensate, anzi da combattere. Egli non può non ammirarne l'umanità, la forza d'animo, il senso del dovere, ma nota anche il loro radicale rifiuto della guerra: essi anzi “sono tutti dei neutralisti feroci e fischiano in Piazza d'armi o per la via i volontari; questo non vuol dire che non siano degli ottimi soldati, migliori forse di quanto lo sia io” (così in una lettera a Meriano del 7 luglio 1915, da Milano). Se il semplice e docile contadino Picco (“nato a Lucca, così come l'ulivo, / come il fiasco del Chianti eri toscano”: è, come vedremo, uno dei protagonisti delle poesie casalasche, legato a Saba anche da una probabile relazione omosessuale) si sottomette pazientemente agli ordini, il cittadino milanese Nino urla contro “questa vitta disperatta” e smania contro la vigliaccheria degli interventisti che ora si sono imboscati (“quelli che han gridato tanto / “Viva la guerra”, e alla guerra non vanno”), e l'operaio Guatelli, “ogni giorno più arrabbiato”, vorrebbe strangolare quelli che hanno voluto una guerra “pensata per uccidere noi popolo”. E ascolta con orrore i compagni che gridano: “Per un Podgora, per un Sabotino / muori tu, se n'hai voglia. O il mio Maggiore, / lui, che non pensa che avanzate”. Eppure Saba non cerca di convincerli, non assume atteggiamenti paternalistici, anzi mostra profondo rispetto verso questi compagni che odiano la guerra, ma si battono con eroismo (“non la chiese, e dà il sangue alla conquista / il buon guerriero che la guerra aborre”), mentre sente assai più riprovevole e insostenibile la sua posizione, di chi crede in ideali sempre più vani e che desidera una guerra e una gloria da cui resta escluso,
Gli anni di vita militare guariscono insomma definitivamente Saba da ogni infatuazione bellicista e da ogni spirito di violenza e di sopraffazione: dal dopoguerra egli fu risolutamente antifascista e, pur rimanendo lontano da ogni impegno politico diretto, ostile ad ogni dittatura, tanto più che, come ebreo, egli dovette nascondersi per sfuggire alle persecuzioni razziali. Indimenticabile resta il ritratto che di lui, timoroso di una dittatura borghese e clericale, ha tracciato Vittorio Sereni in una poesia di Strumenti umani, all'indomani delle elezioni del 18 aprile 1948 e della sconfitta del Fronte popolare (PCI-PSI): “E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile, / lo vidi errare da una piazza all'altra / dall'uno all'altro caffè di Milano / inseguito dalla radio. / “Porca-vociferando-porca”. Lo guardava / stupefatta la gente. / Lo diceva all'Italia. Di schianto, come a una donna / che ignara o no a morte ci ha ferito”.
Il “canzoniere casalasco” segna anche il definitivo abbandono della poesia realistica sperimentata nei Versi militari del 1908, ma che ora gli appare una strada chiusa, estranea alla sua più autentica ispirazione poetica: i versi del 1915 stanno, in confronto a quelli del 1908, “come rose di carta a rose naturali”.
In effetti egli vive in situazioni molto simili e tenta di riprendere i contenuti e le forme espressive che nel 1908 lo avevano portato a mettere da parte il suo Io e la sua inquieta interiorità, per rappresentare in presa diretta fatti e personaggi della vita militare, le attività che scandiscono la giornata del soldato: la sveglia, la marcia, il rancio, la vita di camerata, le povere distrazioni della libera uscita...E a queste scene di vita concreta e oggettiva Saba aveva fatto corrispondere una lingua quanto mai lontana da ogni alone aulico e letterario, una lingua “bassa”, comunicativa e descrittiva, gremita di frasi brutalmente realistiche, vicina al parlato e al gergo militaresco, quella stessa che ritorna del periodo casalasco. Tuttavia questa scelta che nel 1908 aveva prodotto una poesia nuova e “vera”, pienamente corrispondente alla condizione psicologica del Saba che esultava nel sentirsi proiettato fuori dal proprio isolamento e unito ad una comunità di fratelli, a Casalmaggiore gli suona falsa e artificiosa, perché il poeta è cambiato dentro e non riesce più ad aderire ad un mondo di cose e persone da cui si sente, almeno in parte, distante. Per questo le poesie del 1915-17 spariranno quasi completamente dal Canzoniere, rose di carta appunto, invece che rose vere.
Caduto ormai il sogno di essere uguale e unito agli altri uomini, di vivere e di cantare la vita di tutti, di immergersi nella corrente della storia e dei fatti quotidiani, Saba riscopre l'incanto della sua poesia giovanile e sceglie la poetica che rimarrà sua fino alla fine, quella che fa di lui il “grande egocentrico”, che ha il compito di illuminare ciò che sta sotto la realtà immediata, di scendere nel cuore dell'uomo e delle cose nel loro destino universale.
Chiarito il momento storico e psicologico in cui si situa il “canzoniere casalasco”, non resta che passare alla lettura di almeno una parte di esso. Ma per questo i miei dieci lettori dovranno pazientare fino al prossimo incontro.

Umberto Saba soldato, 1915
Mobirise
Pubblicato su "Casalmaggiore", bimestrale a cura
dell'Associazione Pro Loco di Casalmaggiore
Settembre 2015

Scarica il documento pdf