Mobirise

Ricordo di Carlo Rotelli


Carlo Rotelli è stato figura di preminente rilievo nella vita comunitaria di Casalmaggiore negli anni Sessanta e Settanta del Novecento e ha esercitato grande fascino e influenza su molti giovani come uomo di cultura, come uomo politico, come insegnante, come sindaco dal 1970 al 1980.
Dobbiamo quindi essere grati a Pierluigi Bonfatti Sabbioni e al suo collaboratore Sergio Bini per aver realizzato con lungo e assiduo lavoro un video-documentario, recentemente presentato al pubblico, che, attraverso interviste con Rotelli e con amici che gli furono vicini, immagini e documenti d'epoca, ha fatto rivivere un personaggio forse sconosciuto alla gran parte dei casalaschi d'oggi, ma che ha segnato un periodo della nostra storia.
I due autori ci hanno dato del loro insegnante e amico un ritratto vero e autentico, condotto con ammirazione, rispetto e profonda empatia, e senza nulla di celebrativo e di retorico, perché il loro ricordo scava in tutte le direzioni, mettendo a nudo tutti gli aspetti di una personalità complessa e multanime, che dopo aver guidato l'amministrazione pubblica con metodi ed esiti di grande originalità e innovazione, visse negli anni Ottanta, per cause insieme politiche ed esistenziali, un periodo di indubbio declino e involuzione, che da ultimo incise anche sulla sue condizioni di salute e si concluse con la sua scomparsa a soli 55 anni nei primi giorni del 1994. Il documentario, con una scelta autoriale che può essere discussa, ma del tutto legittima, sviluppa ampiamente, forse con qualche eccesso di colore e di insistenza, anche questi aspetti troppo umani che caratterizzarono Rotelli sul piano del costume e del rifiuto delle convenzioni perbeniste e borghesi e che ben dimostrano la sua straordinaria capacità di stabilire profonde amicizie, la sua generosità, il suo vivere libero, ma che certo non aggiungono nulla al significato storico della sua presenza per un ventennio nella vita casalasca.
Ed è appunto questo aspetto che credo meriti d'essere approfondito e sul quale posso dare qualche testimonianza, perché anch'io facevo parte dello stesso gruppo di amici, che, con minime differenze d'età, vivevano nello stesso ambiente e che negli anni del liceo e dell'università cominciarono a intessere tra loro intensi rapporti personali, che si sviluppavano oltre che nei consueti interessi legati all'età, in confronti, ricerche, serrate discussioni, che ci aiutavano a crescere, a riconoscerci, a formarci.
Carlo godeva di un grande ascendente fra di noi per la sua vivacità intellettuale, la sua capacità di andare al fondo delle questioni, di metterne in luce gli aspetti meno scontati, più nuovi e problematici. C'era in lui un certo spirito socratico e maieutico, che con lucidità e pazienza ti portava a scoprire il lato oscuro della luna e ciò era tanto più importante fra giovani che trascorrevano buona parte del tempo libero nell'oratorio di S. Stefano, allora fervido centro di incontro di giovani e anche di adulti maturi, ricco di attività e di iniziative, ma dominato dalla cultura cattolica tradizionalista degli anni Cinquanta.
Carlo dopo la maturità era andato a Milano a frequentare presso l'Università Cattolica la facoltà di Lettere e a fine settimana rientrava a Casalmaggiore, riportando tra noi il frutto e gli stimoli che gli venivano dal contatto con quel mondo, per cui divenne presso di noi il tramite naturale delle ansie di rinnovamento che percorrevano il mondo cattolico dopo le chiusure dell'età di Pio XII. Non posso esprimere un giudizio personale sulla Cattolica di quel tempo che non ho conosciuto, ma so che essa era stata ed era la fucina della più moderna e avanzata cultura cattolica, grazie all'insegnamento dei “professorini” Dossetti, Fanfani, La Pira, Lazzati, tutti legati all'ateneo e riuniti attorno alla rivista “Cronache sociali”, che avevano poi intrapreso in ruoli di grande responsabilità e visibilità la carriera politica nella D.C., partecipando tutti ai lavori dell'Assemblea Costituente con contributi determinanti: per esemplificare, l'art. 1 (L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro) venne formulato da Fanfani; l'art. 7 sui rapporti tra lo Stato e la Chiesa venne elaborato, dopo lungo dibattito, da Dossetti (insieme a Togliatti, segretario del PCI) e molti altri articoli recano in trasparenza il segno delle loro idee. Mi piace anche ricordare che Dossetti, benchè oggi ignoto al grande pubblico, fu personaggio al quale l'Italia deve molto sul piano sia politico che ecclesiale, perché fu protagonista, oltre che della Costituente, anche del Vaticano II, in cui, divenuto monaco e segretario del cardinale Lercaro, giocò un ruolo spesso decisivo. Il solo Lazzati successivamente rientrò in Cattolica e fu docente di Rotelli, che si laureò nell'a. a. 1965-66 con una tesi dal titolo “La pastorale di don Primo Mazzolari”, indicativo della sua attenzione per il cattolicesimo sociale e progressista.
Questi fermenti per quanto confusi dalla Cattolica filtravano fino a noi e Carlo fu il primo che ci parlò di certi scrittori e poeti cattolici come Bloy, Péguy, Bernanos, Mauriac, Eliot del cui pensiero oggi possiamo anche scorgere i limiti, ma che allora aprivano spazi a un nuovo sentire religioso (conservo ancora un piccolo libro di T. S. Eliot, L'idea di una società cristiana, sul quale nel Natale del 1962, mentre lo “prelevavo” dalla sua sempre fornitissima biblioteca, egli scrisse improvvisando una dedica: “Perchè il sociale deve sempre trovare la forma di un'espressione personale, armonica a quella di una comunità ideale e disarmonica a quella di una comunità reale”). Giunse così a noi anche l'eco di Maritain e del suo “umanesimo integrale”, con l'idea di una “nuova cristianità” che, senza alcun integralismo e commistione con il potere politico, fosse lievito fecondo della società attingendo ai valori del Vangelo; e di Mounier, con la sua “rivoluzione personalista e comunitaria”, fondata sul valore assoluto della persona nella sua piena libertà e dignità, vista non come monade isolata, ma nei suoi legami di solidarietà con gli altri: ne discendevano il rifiuto sia dell'individualismo borghese, come del marxismo centrato sull'economico e sulla lotta fra le classi e il primato dell'essere sull'avere, del lavoro sul capitale, dell'utilità sociale sul profitto. In tal modo essi pensavano che si sarebbero sanati anche gli squilibri sociali che erano alle origini del marxismo, considerato da Maritain “l'ultima utopia cristiana”, quasi un'eresia da ricomporre, perché tra liberismo capitalista e movimento socialista, il primo era senz'altro il più intrinsecamente anticristiano.
Soprattutto Carlo ci fece riflettere su certe scelte storiche della Chiesa e sulle pessime conseguenze che esse avevano avuto: l'alleanza trono-altare che durante la Restaurazione aveva compresso il libero progresso dei popoli, gli anatemi del Sillabo del 1864 scagliati da una Chiesa oscurantista contro la civiltà liberale e moderna, contro la democrazia, la libertà di coscienza, di culto, di opinione, di stampa..., l'ostilità contro il movimento risorgimentale e contro l'Italia unita colpevole di aver posto fine al potere temporale del sovrano pontefice, il non expedit che aveva imposto per lungo tempo ai cattolici di non partecipare al voto e alla vita civile, gli aspetti più confessionali del Concordato firmato con “l'uomo della Provvidenza”.
Carlo svolse quindi rispetto a tutti noi un'importante funzione di stimolo critico e uno dei suoi meriti fu quello di aver indotto ciascuno dei suoi amici a trarre da sé il meglio di cui era capace, e insieme quello di aver creato intorno a sé un gruppo affiatato e omogeneo di giovani che avrebbero potuto divenire parte della futura classe dirigente della nostra comunità, come in realtà è avvenuto, con effetti positivi duraturi e forse non del tutto esauriti, se è vero che, almeno fino all'ultima tornata elettorale, in Casalmaggiore si sono sempre succedute amministrazioni di centro-sinistra o di sinistra, nelle quali, per diretta eredità o giunta “per li rami”, si avvertiva la continuità con la lezione di Rotelli.
C'è da dire poi che nei primi anni Sessanta i tempi apparivano eccezionalmente favorevoli a un nuovo inizio e dal concreto confronto con la storia che si svolgeva sotto i nostri occhi nascevano nuove speranze.
C'è un passo famoso del vasto poema autobiografico Il Preludio, in cui William Wordsworth esprime il suo stato d'animo davanti alle prime fiammate della Rivoluzione francese: “Felicità fu in quell'alba essere vivi / ma essere giovani fu davvero il Cielo! / […] Quando Ragione / più vicina sembrò ad affermare i suoi diritti / e più intenta a fare di se stessa / il primo artefice dell'opera / che progrediva allora nel suo nome. / Nè solo parti favorite, bensì l'intera Terra, si rivestì / della beltà d'una promessa: quella che predilige / la rosa in boccio alla rosa in fiore. A tale speranza / ogni animo s'aprì a felicità impensata, / gli inerti si scossero / e le nature vive s'infiammarono”. Non voglio fare paragoni assurdi: i tempi di cui parlo erano assai diversi e i personaggi infinitamente più modesti, ma qualcosa di simile si avvertiva anche nel nostro ambiente, mentre si usciva dalla fase più dura della “guerra fredda” e fra l'Urss destalinizzata di Kruscev e l'Usa della “nuova frontiera” di Kennedy la minaccia atomica lasciava il posto al confronto competitivo e iniziavano il lento disgelo e la “coesistenza pacifica” (con tante guerre locali, per la verità, ma senza il rischio dello scontro diretto fra le due superpotenze), mentre tutti i paesi africani e asiatici si affrancavano dall'orrore del colonialismo.
E anche l'Italia partecipava di questo moto di rinnovamento. L'avvento al pontificato di Giovanni XXIII nel 1958 poneva fine alla Chiesa accentrata e integralista di Pio XII, perennemente chiusa nella cittadella della tradizione, in lotta contro quanto sembrava sfuggire alla propria autorità, contro la società moderna secolarizzata e pluralistica, contro il comunismo ateo e marxista, i cui aderenti, cioè coloro che votavano PCI e PSI, nel 1949 erano stati colpiti da scomunica con solenne decreto del Sant'Uffizio. Tre mesi dopo l'elezione, Giovanni XXIII, tra la sorpresa e il panico di gran parte della Curia, indiceva quel concilio Vaticano II che con i suoi lavori e i suoi decreti tra il 1962 e il 1965 avrebbe per sempre trasformato il volto della Chiesa. Con le encicliche Mater et Magistra del 1961, con la veramente epocale Pacem in terris del '63 il papa dichiarava solennemente la missione esclusivamente religiosa della Chiesa e la sua totale indipendenza da ogni sistema politico, metteva fine alla Chiesa temporalistica e costantiniana, affermava la primaria esigenza della pace, rivolgendo il suo appello non solo ai cattolici, ma a “tutti gli uomini di buona volontà” e, distinguendo tra sistemi ideologici e movimenti storici concreti, affidava a tutti gli uomini, indipendentemente dalle fedi e dalle ideologie, il compito di costruire questa pace fondata sulla carità, sulla libertà, sulla giustizia.
Sul piano economico-sociale si vivevano anni di tumultuosa trasformazione, del passaggio in Italia dalla povera civiltà contadina alla civiltà industriale e del benessere diffuso: la crescita annua era superiore al 6%, l'occupazione e le retribuzioni avevano vistosi miglioramenti, i diritti dei lavoratori erano meglio tutelati, il grande esodo dal Sud forniva alle fabbriche del Nord un'inesauribile manodopera a costi contenuti, la scolarità di massa apriva la strada a un'intensa mobilità sociale, si presentavano nuovi problemi e contraddizioni propri della società “affluente”: il lavoro a catena, il consumismo, la questione ambientale.
Anche nel rapporto tra i partiti si entrava in una fase nuova, quella della preparazione e avvio del centro- sinistra, l'evento che spinse anche il gruppo “rotelliano” al suo ingresso nell'agone politico.
La D.C. casalasca era stata negli anni Cinquanta un partito moderato, perfettamente allineato all'imperativo dell'unità politica dei cattolici, che godeva di un consenso maggioritario grazie al sostegno dell'associazionismo cattolico, dei parroci, del mondo contadino organizzato dalla Coldiretti, della piccola e media borghesia. Il boom economico dell'industria e la fuga dei giovani dalle campagne verso la città misero in crisi anche nel nostro territorio un assetto consolidato e imposero nuove scelte.
La maggioranza di noi era cresciuta nell'oratorio, era o era stata iscritta all'Azione Cattolica e guardava come suo naturale riferimento politico alla Democrazia Cristiana, verso la quale però ci sentivamo molto critici, poiché ci sembrava un partito puramente conservatore, privo di idee e di ambizioni riformatrici.
Si deve dire innanzi tutto che, al contrario di oggi, quando la fiducia nei partiti è ridotta quasi allo zero, essi occupavano allora l'intera scena politica e ad essi veniva pienamente riconosciuta la funzione che a loro assegna la Costituzione, quella di libere associazioni attraverso cui i cittadini possono “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49). Chi voleva mettere al servizio della cosa pubblica il proprio impegno e le proprie capacità sentiva il bisogno di iscriversi a un partito. Non mancavano certo coloro che mettevano al primo posto l'interesse personale di guadagno o di carriera, specie in un partito potente e composito come la D.C., ma nel gruppo di cui parliamo prevalevano di gran lunga il disinteresse e l'impegno ideale e civile, sull'esempio anche di Rotelli, che fu oggetto anche di forti polemiche, ma a cui tutti sempre riconobbero un'esemplare onestà, assoluta correttezza amministrativa, distacco dal profitto personale (anche perché, per dirla tutta, i beni di famiglia lo ponevano al di sopra di certi richiami).
La funzione dei partiti era allora quella di offrire a tutti i cittadini il canale prioritario per accedere e partecipare alla vita politica, ma insieme quella di educarli alla dialettica democratica, al confronto fra le varie posizioni, alla conoscenza delle realtà e dei problemi concreti, delle normative che li regolavano, ad acquisire insomma una coscienza civica e istituzionale. Si trattava di un compito essenziale in un paese povero di radici democratiche, in cui il fascismo aveva distrutto anche quanto costruito dallo Stato liberale, in cui la metà del cielo, la popolazione femminile, aveva conquistato solo nel 1946 il diritto di voto, che permise alle donne di divenire per la prima volta cittadine a pieno titolo. Nel complesso credo che i partiti abbiano assolto bene nel dopoguerra queste funzioni e anzi vedo nella loro dissoluzione come strutture organizzate il maggior pericolo per la nostra democrazia, con il prevalere della demagogia e di un'antipolitica che si sfoga nella protesta urlata, non dà soluzione ai problemi, è il contrario del razionale esercizio dei diritti civili.
Non sembri questo un discorso estraneo al nostro argomento, perché anzi il principale merito, l'intuizione di maggior peso e di più lunga gittata di Rotelli credo sia stata appunto quella di voler inserire nella comunità casalasca una visione nobile della politica, concepita come attività posta al servizio del bene comune, che richiede dedizione e competenza, ma anche che guardi avanti, dotata di un progetto di società di alto profilo etico e culturale da trasferire poi nella prassi quotidiana.
Il cronista Giovanni Villani, parlando di Brunetto Latini, il maestro di Dante, così ne tesse le lodi: “Fu cominciatore e maestro in digrossare i fiorentini e farli scorti in ben parlare e in saper guidare e reggere la nostra repubblica secondo la politica”. Non vorrei volare troppo alto, ma, ponendo gli umili casalaschi al posto dei fiorentini, qualche volta ho pensato che fosse all'incirca questo l'obiettivo ideale a cui Carlo guardava nella sua azione sia di uomo che di politico.
Si trattava in primo luogo di uscire dagli schemi ristretti della realtà locale, per porre anche Casalmaggiore in comunicazione con quanto maturava nel vasto mondo, nella Chiesa e nel partito nel quale egli si sentiva fortemente e quasi visceralmente radicato. Egli guardava alle correnti più avanzate del cristianesimo sociale, e in particolare a quella cosiddetta di “Nuove Cronache”, guidata dall'on. Fanfani, che in quegli anni appariva l'uomo di gran lunga più a sinistra della D.C., perché favorevole a un forte intervento dello Stato nell'economia e a una politica di programmazione per promuovere riforme di struttura, per l'attivismo pragmatico che metteva nel concretizzare i suoi progetti. Inoltre Fanfani si caratterizzava per la centralità che intendeva dare al partito (e ai partiti) nella vita democratica, per cui dedicò molta attenzione alla sua organizzazione sia centrale che territoriale e mai come allora esso si mobilitò nell'analisi e nel dibattito interno e nella società. Ciò implicava lo scioglimento d'ogni vincolo improprio tra partito e mondo ecclesiale: Fanfani era fervente cattolico, ma, come Moro e le componenti della sinistra, non intendeva farsi dettare da nessuna autorità esterna le scelte politiche che gli competevano (anche se, in una fase diversa, fu lui a guidare nel 1974 il referendum contro il divorzio e si discute ancora su chi, tra lui e i vertici ecclesiastici, convinse l'altro a prendere la dissennata decisione).
Come ho già accennato, nella realtà preconciliare il laicato cattolico era del tutto subordinato alla Chiesa, o meglio al papa e alla gerarchia, che non riconoscevano ad esso alcuna autonomia neppure in campo temporale e sognavano il ritorno a uno Stato confessionale. Nella Curia vaticana il partito era concepito come braccio secolare della Chiesa, per cui le qualità più apprezzate nei cattolici erano la coesione, la disciplina, l'obbedienza e alla loro organizzazione in schiere di “arditi delle fede e araldi della croce” dovevano provvedere le diverse associazioni chiamate a mobilitarsi nelle grandi manifestazioni di massa, capaci di imporsi anche agli incerti con la loro spettacolarità e l'esteriorità del numero. Le adunate del gesuita padre Lombardi, il “microfono di Dio”, le processioni della “Madonna pellegrina”, la “Crociata del grande ritorno” bandita per l'Anno Santo del 1950 ne furono il perfetto esempio. Un famoso episodio rivelatore della volontà di usare il partito cattolico come docile strumento fu la cosiddetta “operazione Sturzo”: nel 1952 lo stesso papa tentò di costringere la D.C. ad allearsi con monarchici e neofascisti nelle elezioni amministrative romane, incontrando un netto rifiuto in De Gasperi, profondamente cattolico, ma con un forte senso dello Stato e della laicità e quindi contrario a farsi imporre un patto che oltretutto avrebbe snaturato un partito di centro compromettendolo con le destre estreme. E neppure oggi, malgrado, o forse a causa di papa Francesco, sono cessati in certi settori clericali gli spiriti di crociata e il linguaggio militare-militante (i Legionari di Cristo, le Sentinelle in piedi...) e neppure certi tentativi di condizionare gli atti legislativi con pronunciamenti che, se espressi senza dogmatismi e non possumus, sono evidentemente del tutto legittimi e anzi utili al confronto, ma che non devono ledere la responsabilità dei laici nell'impostare i loro programmi e nelle conseguenti decisioni.
Il riconoscimento dell'autonomia dei laici impegnati in politica e della separazione e distinzione tra Stato e Chiesa fu dunque una conquista lenta e le resistenze della parte più intransigente della Curia emersero ancora quando alla guida della D.C. si trovarono due uomini assai diversi, ma nei primi anni Sessanta largamente complementari, Moro e Fanfani: l'uno con lo sguardo lungo del politico che mirava al consolidamento e allo sviluppo del quadro democratico, l'altro pragmatico ed efficiente, pensavano entrambi che andasse superato il centrismo e che nuove forze popolari dovessero essere inserite nel governo sviluppando un'alleanza con il Partito socialista. Questo progetto incontrò durissime resistenze in larga parte della gerarchia curiale e dei vescovi, che posero il veto all'incontro con un partito marxista, temendo cedimenti e confusioni: tanto era il rifiuto ideologico del diverso. Ci volle una graduale marcia di avvicinamento per giungere nel 1963 a un organico centro-sinistra guidato da Moro, che convinse tutti ad accettare questa alleanza con un famoso discorso di otto ore al congresso D.C. di Napoli del 1962, che per il tono e l'abilità fu subito denominato “l'enciclica casti connubii”. Ma Fanfani aveva già guidato fra il '60 e il '62 due governi con il sostegno esterno del PSI, e realizzato due qualificanti riforme: la nazionalizzazione dell'industria elettrica e la scuola media unica e obbligatoria (che, approvate anche con l'appoggio del PCI, purtroppo rimasero le uniche di rilievo nell'intera fase del centro-sinistra).
In Casalmaggiore il gruppo “rotelliano” visse il periodo di preparazione e affermazione del centro-sinistra con intensa partecipazione, vedendo in questa svolta il compiersi delle proprie speranze di rinnovamento. Si aprì un dibattito aspro tra i moderati della “vecchia guardia” e i giovani progressisti, che spesso assunse anche il carattere dello scontro generazionale e la conclusione fu un netto spostamento a sinistra del partito dopo le elezioni amministrative del 1965. Dopo una fase di contrapposizione, fu riconfermato come sindaco un equilibrato notabile, ma con l'ingresso del PSI nella maggioranza e la presenza nella giunta di due assessori “giovani”, Rotelli e chi scrive queste note. Nella nuova tornata elettorale del 1970 egli si impose senza difficoltà e fu eletto sindaco di una giunta di centro-sinistra con una forte presenza nella giunta e nel consiglio di suoi sostenitori e rimase a capo dell'amministrazione fino al 1980, aprendo gradualmente spazi anche alla presenza del PCI, quasi ad anticipare in Casalmaggiore quella politica che sul piano nazionale avrebbe dovuto dar compimento alla democrazia italiana, portando insieme al governo i due maggiori partiti popolari di massa: “compromesso storico” secondo Berlinguer, “solidarietà nazionale” secondo Moro, che pagò con la vita questa scelta. Scelta che rimase allora interrotta, ma che doveva contenere in sé delle forti ragioni storiche e ideali, se in fondo ha trovato attuazione nel partito oggi maggioritario in Italia e se ha prodotto come suo più recente frutto il presidente della Repubblica appena eletto.
Può terminare qui il mio ricordo di Carlo Rotelli. Altri più qualificati di me potranno, se credono, intervenire sulla cronaca di quegli anni, su quanto egli realizzò nella sua attività di sindaco, su altri aspetti della sua vita pubblica e privata. A me bastava restituire la sua immagine come interprete e come protagonista di un certo momento della storia del Paese e di Casalmaggiore.

Carlo Rotelli in un comizio nel 1975
Mobirise
Pubblicato su "Casalmaggiore", bimestrale a cura
dell'Associazione Pro Loco di Casalmaggiore
Febbraio 2015

Scarica il documento pdf